La vita digitale e’ difficile da ricordare…
Di Patrizio Di Nicola
Un tempo, quando ero bambino, a me e ai miei genitori era chiesto di ricordare pochi codici numerici: il telefono della nonna, dei parenti più stretti, di qualche amico della domenica, la panetteria sotto casa. Se la memoria non bastava (ma era raro che ciò accadesse) i pochi numeri venivano diligentemente appuntati su di una rubrica, scritta a mano, con la calligrafia migliore possibile. Oggi la situazione è molto diversa, e la nostra vita digitale è molto più difficile da ricordare. Iniziamo con il bancomat, dotato di un breve numero (il PIN) da mandare a memoria (ma da non scrivere assolutamente in nessun posto). Facile, sono solo 5 numeri. Solo che di bancomat e carte di credito magari ne abbiamo due o tre, se abbiamo una attività professionale anche di più. La vita si fa difficile, e il cervello richiede allenamento. Se vogliamo usare i servizi online della banca, ovviamente avremo un’altra password da ricordare, magari anche due: una per entrare nel sistema, l’altra per eseguire le operazioni finanziarie (ma perché mai? Cosa dovremmo fare nel sito della banca se non operazioni?). Se poi vogliamo pagare online anche i bollettini postali dovremo avere un’ulteriore password, che Poste Italiane chiede per autenticare il cliente. E lo stesso fanno le carte di credito, il conto telefonico, la ricarica del cellulare, il provider internet, l’università, l’intranet aziendale, ecc.
Insomma, siamo sommersi di codici, numeri e password da mandare a mente, ben oltre quello che sia umanamente possibile fare. Purtroppo (o per fortuna?), anche nel mondo digitale il nostro cervello e’ rimasto umano, e continuiamo a dare meno importanza ai numeri che non alle persone. Ci ricordiamo alla perfezione di voci e volti, ma stentiamo moltissimo con le password, nonostante l’importanza che queste assumono nella nostra vita. Sarà che diamo ancora più importanza ai rapporti reali che non alle codifiche digitali? A proposito: non dite a nessuno che alla fin fine avete scelto una soluzione semplice: usate sempre la stessa password per tutti i servizi. Il dio dell’informatica se ne potrebbe avere a male.
domenica, novembre 18, 2007
giovedì, settembre 06, 2007
Molto fumo e poco arrosto?
Di Patrizio Di Nicola
I governi italiani degli ultimi anni, in linea con le indicazioni europee, hanno puntato molto sull’e-Government. Semplificazione, rapidità, economie di gestione: questi i motivi che consigliano di erogare in rete i servizi ai cittadini. Grandi promesse, quindi, ma quanto realizzate? Un recente rapporto di Accenture, la multinazionale della consulenza, ha studiato 22 nazioni, dall’Australia sino al Portogallo passando per l’Italia, per capire quanti dei servizi di e-Gov promessi fossero davvero disponibili. Lo studio, dall’indicativo titolo Delivering on the Promise (più o meno: “fornire quello che si promette”) ha scoperto che nessun governo riesce a erogare tutti i servizi previsti. In cima alla graduatoria troviamo Singapore e il Canada, che forniscono l’89% dei servizi, seguiti dagli Usa (79%). In fondo, purtroppo, l’Italia (solo 24%). Dietro di noi in questa poco onorevole graduatoria troviamo la Spagna, il Brasile, la Polonia e il Sud Africa. Gli ultimi tre, almeno, hanno la consolazione di spendere, nei servizi in rete al cittadino, molto meno di noi e quindi il rapporto costo/efficienza è migliore.
Accenture indica quattro chiavi per spiegare il successo di alcuni e il fallimento degli altri nel fornire i servizi di e-Government: 1) bisogna comprendere le necessità dei cittadini, non considerarli come una massa omogenea; 2) il backoffice va ristrutturato per allinearlo ai servizi online, altrimenti è impossibile fornire i servizi; 3) il personale va formato in maniera adeguata alle nuove esigenze; 4) non si può pensare di fare l’e-Gov in splendido isolamento, nelle stanze chiuse dei ministeri. Bisogna invece tener conto ed interagire con il complesso ecosistema composto da cittadini, aziende e organizzazioni non governative. Una ricetta semplice, ma che in Italia viene adottata, sinora, in una minoranza dei casi: è più semplice acquistare nuovi computer, che non cambiare la struttura dell’organizzazione.
Di Patrizio Di Nicola
I governi italiani degli ultimi anni, in linea con le indicazioni europee, hanno puntato molto sull’e-Government. Semplificazione, rapidità, economie di gestione: questi i motivi che consigliano di erogare in rete i servizi ai cittadini. Grandi promesse, quindi, ma quanto realizzate? Un recente rapporto di Accenture, la multinazionale della consulenza, ha studiato 22 nazioni, dall’Australia sino al Portogallo passando per l’Italia, per capire quanti dei servizi di e-Gov promessi fossero davvero disponibili. Lo studio, dall’indicativo titolo Delivering on the Promise (più o meno: “fornire quello che si promette”) ha scoperto che nessun governo riesce a erogare tutti i servizi previsti. In cima alla graduatoria troviamo Singapore e il Canada, che forniscono l’89% dei servizi, seguiti dagli Usa (79%). In fondo, purtroppo, l’Italia (solo 24%). Dietro di noi in questa poco onorevole graduatoria troviamo la Spagna, il Brasile, la Polonia e il Sud Africa. Gli ultimi tre, almeno, hanno la consolazione di spendere, nei servizi in rete al cittadino, molto meno di noi e quindi il rapporto costo/efficienza è migliore.
Accenture indica quattro chiavi per spiegare il successo di alcuni e il fallimento degli altri nel fornire i servizi di e-Government: 1) bisogna comprendere le necessità dei cittadini, non considerarli come una massa omogenea; 2) il backoffice va ristrutturato per allinearlo ai servizi online, altrimenti è impossibile fornire i servizi; 3) il personale va formato in maniera adeguata alle nuove esigenze; 4) non si può pensare di fare l’e-Gov in splendido isolamento, nelle stanze chiuse dei ministeri. Bisogna invece tener conto ed interagire con il complesso ecosistema composto da cittadini, aziende e organizzazioni non governative. Una ricetta semplice, ma che in Italia viene adottata, sinora, in una minoranza dei casi: è più semplice acquistare nuovi computer, che non cambiare la struttura dell’organizzazione.
giovedì, agosto 30, 2007
Luci ed ombre dell’Amministrazione Digitale
Molto di recente il presidente del CNIPA, lìorganismo che cura l’informatica nell’apparato statale, ha reso noto le condizioni del sistema di connettività pubblica a fine 2006. Ne esce una fotografia ricca di luci, ma anche oscurata da ampie illogicità “comportamentali”. Un caso su tutti: se da una parte è sicuramente positivo il fatto che il numero della transazioni in rete eseguite tra amministrazioni e cittadino sia cresciuto, rispetto al 2005, di oltre il 10%, dall’altra pare allarmante il dato che solo il 2% delle 260 milioni di operazioni svolte online sia stato supportato da sistemi di autenticazione sicura degli utenti, basata su smart card o carte personali. In pratica, la quasi totalità delle operazioni svolte sono potenzialmente a rischio. Il fatto non va sottovalutato. Oggi una delle minacce più serie per chi usa Internet sta nel furto di identità digitale. La Rsa Security (www.rsasecurity.com), una azienda specializzata nella protezione di informazioni private e identità digitali, sostiene che il fenomeno è in rapida crescita, e potrebbe avere serie ripercussioni sulle imprese online. In media, infatti, un consumatore evoluto crea oltre 20 diverse identità digitali, fornendo informazioni personali a siti web, con il 64% che utilizza la stessa password per accedere a tipi diversi di siti, dall'email al conto bancario. Il 33% ha addirittura ammesso di condividere le password con amici, colleghi e familiari. Il governo americano, per contrastare l’aumento dei crimini ai danni degli incauti utilizzatori di Internet, ha diffuso in rete una brochure multilingue in cui avvisa i cittadini di tenere confidenziale il numero della sicurezza sociale, che viene sempre più spesso utilizzato – incautamente per la verità – per autenticare l’utente nelle transazioni con l’apparato statale. Certo che pare almeno strano che i governi prima si siano posti, alla ricerca di una maggiore efficienza economica, il problema di aumentare il numero delle transazioni in rete, e solo dopo quello di garantire la sicurezza degli utenti. Previo poi correre ai ripari tardivamente. Un comportamento molto old society, in fin dei conti.
Molto di recente il presidente del CNIPA, lìorganismo che cura l’informatica nell’apparato statale, ha reso noto le condizioni del sistema di connettività pubblica a fine 2006. Ne esce una fotografia ricca di luci, ma anche oscurata da ampie illogicità “comportamentali”. Un caso su tutti: se da una parte è sicuramente positivo il fatto che il numero della transazioni in rete eseguite tra amministrazioni e cittadino sia cresciuto, rispetto al 2005, di oltre il 10%, dall’altra pare allarmante il dato che solo il 2% delle 260 milioni di operazioni svolte online sia stato supportato da sistemi di autenticazione sicura degli utenti, basata su smart card o carte personali. In pratica, la quasi totalità delle operazioni svolte sono potenzialmente a rischio. Il fatto non va sottovalutato. Oggi una delle minacce più serie per chi usa Internet sta nel furto di identità digitale. La Rsa Security (www.rsasecurity.com), una azienda specializzata nella protezione di informazioni private e identità digitali, sostiene che il fenomeno è in rapida crescita, e potrebbe avere serie ripercussioni sulle imprese online. In media, infatti, un consumatore evoluto crea oltre 20 diverse identità digitali, fornendo informazioni personali a siti web, con il 64% che utilizza la stessa password per accedere a tipi diversi di siti, dall'email al conto bancario. Il 33% ha addirittura ammesso di condividere le password con amici, colleghi e familiari. Il governo americano, per contrastare l’aumento dei crimini ai danni degli incauti utilizzatori di Internet, ha diffuso in rete una brochure multilingue in cui avvisa i cittadini di tenere confidenziale il numero della sicurezza sociale, che viene sempre più spesso utilizzato – incautamente per la verità – per autenticare l’utente nelle transazioni con l’apparato statale. Certo che pare almeno strano che i governi prima si siano posti, alla ricerca di una maggiore efficienza economica, il problema di aumentare il numero delle transazioni in rete, e solo dopo quello di garantire la sicurezza degli utenti. Previo poi correre ai ripari tardivamente. Un comportamento molto old society, in fin dei conti.
I giovani e la P.A.
Nell’ultima edizione del Forum della Pubblica Amministrazione, tra i molti convegni autocelebrativi organizzati da ministeri ed authority, trovava spazio, un po’ nascosto nelle pieghe del programma ufficiale, un incontro dedicato ai giovani (titolo: Vecchio sarà lei! … Quale spazio c’è per i giovani nella PA?). La domanda è d’obbligo: in un paese che invecchia rapidamente e in cui il potere è saldamente nelle mani di persone over sessanta (e non di rado over settanta), c’e’ davvero qualche possibilità per i giovani? Va subito detto che gli interventi nel blog degli organizzatori della manifestazione lasciano pochi dubbi in merito. Il rinnovamento dovrebbe passare per l’immissione in ruolo di lavoratori giovani e preparati, ma questi, purtroppo, vengono coinvolti nella macchina dello Stato in condizioni di precariato e ovviamente senza responsabilità decisionali. I dati Inps sui collaboratori nel 2006 (la gran parte dei nuovi ingressi nel settore pubblico avviene per tale strada), infatti, ci dicono che la PA ha a libro paga oltre 75 mila persone, neanche molto giovani (età media 39 anni, nel settore privato e’ di 36), ai quali elargisce una sontuosa retribuzione di neanche 8300 Euro l’anno. Per cercare qualcuno più giovane e un po’ meglio pagato bisogna guardare ai ricercatori. Dottorandi di ricerca e borsisti del ministero dell’Università hanno in media 31 anni e percepiscono oltre 11 mila euro. Peccato che a 30 anni, all’estero le carriere scientifiche sono ormai stabilizzate. Un tempo capitava anche in Italia: Fermi a quell’età insegnava Fisica Teorica, dirigeva il gruppo di ricerca di Via Panisperna e a 37 anni avrebbe preso il premio Nobel. Ma quella, ovviamente era un’altra pubblica amministrazione, in cui contavano di più la sostanza che la forma. Ed essere giovani era un valore positivo. Oggi, nella PA, essere giovane significa soprattutto essere precario, una condizione scomoda che li mette alla mercè dei “vecchi” dirigenti dai quali dipende la riconferma nell’incarico. In tali condizioni, ovviamente, innovare è un rischio che non vale neanche tentare.
Nell’ultima edizione del Forum della Pubblica Amministrazione, tra i molti convegni autocelebrativi organizzati da ministeri ed authority, trovava spazio, un po’ nascosto nelle pieghe del programma ufficiale, un incontro dedicato ai giovani (titolo: Vecchio sarà lei! … Quale spazio c’è per i giovani nella PA?). La domanda è d’obbligo: in un paese che invecchia rapidamente e in cui il potere è saldamente nelle mani di persone over sessanta (e non di rado over settanta), c’e’ davvero qualche possibilità per i giovani? Va subito detto che gli interventi nel blog degli organizzatori della manifestazione lasciano pochi dubbi in merito. Il rinnovamento dovrebbe passare per l’immissione in ruolo di lavoratori giovani e preparati, ma questi, purtroppo, vengono coinvolti nella macchina dello Stato in condizioni di precariato e ovviamente senza responsabilità decisionali. I dati Inps sui collaboratori nel 2006 (la gran parte dei nuovi ingressi nel settore pubblico avviene per tale strada), infatti, ci dicono che la PA ha a libro paga oltre 75 mila persone, neanche molto giovani (età media 39 anni, nel settore privato e’ di 36), ai quali elargisce una sontuosa retribuzione di neanche 8300 Euro l’anno. Per cercare qualcuno più giovane e un po’ meglio pagato bisogna guardare ai ricercatori. Dottorandi di ricerca e borsisti del ministero dell’Università hanno in media 31 anni e percepiscono oltre 11 mila euro. Peccato che a 30 anni, all’estero le carriere scientifiche sono ormai stabilizzate. Un tempo capitava anche in Italia: Fermi a quell’età insegnava Fisica Teorica, dirigeva il gruppo di ricerca di Via Panisperna e a 37 anni avrebbe preso il premio Nobel. Ma quella, ovviamente era un’altra pubblica amministrazione, in cui contavano di più la sostanza che la forma. Ed essere giovani era un valore positivo. Oggi, nella PA, essere giovane significa soprattutto essere precario, una condizione scomoda che li mette alla mercè dei “vecchi” dirigenti dai quali dipende la riconferma nell’incarico. In tali condizioni, ovviamente, innovare è un rischio che non vale neanche tentare.
Che strani i cinesi
La Cina, sia che la si veda come temibile concorrente commerciale, sia come una straordinaria opportunità di business, è da tempo al centro dei pensieri di molti decision maker. Si organizzano missioni commerciali ed accademiche, i partiti politici e i sindacati cercano di penetrarne le complesse logiche di funzionamento politico. La Cina, insomma, attrae e fa paura. Ma pare anche che stia deludendo coloro che avevano pensato che potesse rappresentare un nuovo Eldorado. Business Week, il settimanale americano che anticipa spesso gli umori del capitalismo d’oltreoceano, lamenta, in un recente numero, la eccessiva cautela dei consumatori cinesi. I quali, nonostante la imponente crescita economica e l’aumento dei salari che ha costituito un enorme ceto intermedio, sono restii a correre nei centri commerciali a comprare televisori, cellulari, e motociclette con le quali sostituire i tradizionali cicli che riempiono le strade della Cina. Certo, la vendita di automobili l’anno scorso è cresciuta del 30%, ma rimane il fatto che gli 1,3 miliardi di cinesi, con una popolazione pari a quattro volte gli Stati Uniti, spendono solo il 12% rispetto agli americani. E la situazione non è destinata a capovolgersi in fretta, in quanto i cinesi anziché spendere tutto quello che guadagnano, paiono intenzionati a risparmiare. A ben scavare, però, il comportamento dei consumatori in quella parte del mondo sembra del tutto logica. Infatti, con la trasformazione in senso capitalistico della società, sono stati aboliti o pesantemente ridotti molti benefici di cui i cinesi godevano, quali l’abitazione di proprietà dello Stato, il sistema sanitario e quello scolastico gratuiti, e la pensione pubblica. Oggi chi vuole questi servizi è costretto a pagarli, spesso a caro prezzo. Nel frattempo, nonostante il tentativo di aumentare i salari di pari passo con la crescita economica, le retribuzioni rappresentano oggi il 41,4% del PIL, con un calo di oltre 11 punti rispetto al 1998. Negli Usa, questo rapporto si attesta al 57%. E’ evidente che, in tali condizioni si sia più propensi al risparmio che alla spesa. Le grandi corporation americane, in definitiva, stanno scoprendo i lati negativi del capitalismo cinese che esse stesse hanno partorito tramite le politiche dei bassi costi della manodopera.
La Cina, sia che la si veda come temibile concorrente commerciale, sia come una straordinaria opportunità di business, è da tempo al centro dei pensieri di molti decision maker. Si organizzano missioni commerciali ed accademiche, i partiti politici e i sindacati cercano di penetrarne le complesse logiche di funzionamento politico. La Cina, insomma, attrae e fa paura. Ma pare anche che stia deludendo coloro che avevano pensato che potesse rappresentare un nuovo Eldorado. Business Week, il settimanale americano che anticipa spesso gli umori del capitalismo d’oltreoceano, lamenta, in un recente numero, la eccessiva cautela dei consumatori cinesi. I quali, nonostante la imponente crescita economica e l’aumento dei salari che ha costituito un enorme ceto intermedio, sono restii a correre nei centri commerciali a comprare televisori, cellulari, e motociclette con le quali sostituire i tradizionali cicli che riempiono le strade della Cina. Certo, la vendita di automobili l’anno scorso è cresciuta del 30%, ma rimane il fatto che gli 1,3 miliardi di cinesi, con una popolazione pari a quattro volte gli Stati Uniti, spendono solo il 12% rispetto agli americani. E la situazione non è destinata a capovolgersi in fretta, in quanto i cinesi anziché spendere tutto quello che guadagnano, paiono intenzionati a risparmiare. A ben scavare, però, il comportamento dei consumatori in quella parte del mondo sembra del tutto logica. Infatti, con la trasformazione in senso capitalistico della società, sono stati aboliti o pesantemente ridotti molti benefici di cui i cinesi godevano, quali l’abitazione di proprietà dello Stato, il sistema sanitario e quello scolastico gratuiti, e la pensione pubblica. Oggi chi vuole questi servizi è costretto a pagarli, spesso a caro prezzo. Nel frattempo, nonostante il tentativo di aumentare i salari di pari passo con la crescita economica, le retribuzioni rappresentano oggi il 41,4% del PIL, con un calo di oltre 11 punti rispetto al 1998. Negli Usa, questo rapporto si attesta al 57%. E’ evidente che, in tali condizioni si sia più propensi al risparmio che alla spesa. Le grandi corporation americane, in definitiva, stanno scoprendo i lati negativi del capitalismo cinese che esse stesse hanno partorito tramite le politiche dei bassi costi della manodopera.
L’innovazione e il Partito che non c’e’
Di innovazione parlano tutti i partiti, e quando ne discutono la mettono quasi sempre al centro della propria azione politica. Anche i partiti che ancora non esistono ci pensano, come il nascente Partito Democratico, che ha dedicato uno dei suoi primissimi laboratori politici al tema dell’innovazione. I risultati cui gli esperti che hanno partecipato al laboratorio sono pervenuti indicano due tematiche come strategiche per l’immediato futuro: le infrastrutture di rete e il miglioramento dei processi di e-Government. Argomenti assolutamente importanti: non c’e’ innovazione senza infrastrutture; e ciò non costituisce una novità, se è vero che anche la società industriale non si sarebbe sviluppata senza centrali elettriche e sistemi di comunicazione come le ferrovie e le strade. E non c’e’ innovazione senza una pubblica amministrazione moderna, che funzioni bene e non sia un peso per il sistema produttivo.
Ma l’innovazione non è solo questo. L’innovazione ci darà un futuro migliore, ma solo se la curiamo giorno per giorno. Ai telefonini e a Internet succederanno altre novità tecnologiche, che ci permetteranno di fare meglio, in maniera più economica e in minor tempo molte delle cose che oggi ci costano fatica. Innovare significa cambiare il modo in cui le persone lavorano e vivono e come le aziende sono organizzate, alla ricerca di efficienza e di compatibilità negli stili di vita di uomini e donne. Perchè ciò avvenga non bastano le tattiche come quelle sinora delineate, serve una strategia vera e propria, che metta al centro la produzione diffusa di innovazione. Ciò può avvenire solo se si salda stabilmente il rapporto tra centri di ricerca, imprese e pubbliche amministrazioni. Oggi questo rapporto semplicemente non esiste, almeno se si escludono pochi casi di eccellenza che però più che best practices sono oasi nel deserto. I Governi spendono poco, ma soprattutto male, con procedure burocratiche che rendono impossibile innovare davvero; le aziende cercano di conservare allo stremo i propri know how, senza preoccuparsi di incrementarli, e ciò facendo perdono competitività e neanche se ne avvedono; le Università, strangolate da vincoli di bilancio e da una politica miope che non affronta i costi reali della formazione, producono laureati e ricercatori che fuggono nei maggiori laboratori del mondo, dove oltre che il genio trovano anche i mezzi per lavorare.
Chissà, forse il vero Partito che non c’e’ è proprio quello dell’innovazione.
Di innovazione parlano tutti i partiti, e quando ne discutono la mettono quasi sempre al centro della propria azione politica. Anche i partiti che ancora non esistono ci pensano, come il nascente Partito Democratico, che ha dedicato uno dei suoi primissimi laboratori politici al tema dell’innovazione. I risultati cui gli esperti che hanno partecipato al laboratorio sono pervenuti indicano due tematiche come strategiche per l’immediato futuro: le infrastrutture di rete e il miglioramento dei processi di e-Government. Argomenti assolutamente importanti: non c’e’ innovazione senza infrastrutture; e ciò non costituisce una novità, se è vero che anche la società industriale non si sarebbe sviluppata senza centrali elettriche e sistemi di comunicazione come le ferrovie e le strade. E non c’e’ innovazione senza una pubblica amministrazione moderna, che funzioni bene e non sia un peso per il sistema produttivo.
Ma l’innovazione non è solo questo. L’innovazione ci darà un futuro migliore, ma solo se la curiamo giorno per giorno. Ai telefonini e a Internet succederanno altre novità tecnologiche, che ci permetteranno di fare meglio, in maniera più economica e in minor tempo molte delle cose che oggi ci costano fatica. Innovare significa cambiare il modo in cui le persone lavorano e vivono e come le aziende sono organizzate, alla ricerca di efficienza e di compatibilità negli stili di vita di uomini e donne. Perchè ciò avvenga non bastano le tattiche come quelle sinora delineate, serve una strategia vera e propria, che metta al centro la produzione diffusa di innovazione. Ciò può avvenire solo se si salda stabilmente il rapporto tra centri di ricerca, imprese e pubbliche amministrazioni. Oggi questo rapporto semplicemente non esiste, almeno se si escludono pochi casi di eccellenza che però più che best practices sono oasi nel deserto. I Governi spendono poco, ma soprattutto male, con procedure burocratiche che rendono impossibile innovare davvero; le aziende cercano di conservare allo stremo i propri know how, senza preoccuparsi di incrementarli, e ciò facendo perdono competitività e neanche se ne avvedono; le Università, strangolate da vincoli di bilancio e da una politica miope che non affronta i costi reali della formazione, producono laureati e ricercatori che fuggono nei maggiori laboratori del mondo, dove oltre che il genio trovano anche i mezzi per lavorare.
Chissà, forse il vero Partito che non c’e’ è proprio quello dell’innovazione.
Cultura libera
E’ di qualche giorno fa la notizia che il CNIPA, organizzazione che ha l'obiettivo primario di supportare la pubblica amministrazione nell'utilizzo efficace dell'informatica e contenere i costi dell’azione amministrativa, ha siglato un protocollo di intesa con la Regione Toscana. Scopo dell’accordo è di scambiarsi le esperienze fatte nel campo dell’e-learning e della diffusione di metodologie basate sulle nuove tecnologie per l'aggiornamento professionale dei pubblici dipendenti. La Toscana, infatti, è decisamente in una posizione avanzata in questo settore. Grazie al progetto TRIO (Tecnologie, Ricerca, Innovazione e Orientamento) la Regione mette a disposizione, gratuitamente previa registrazione, un portale dal quale è possibile fruire di oltre mille corsi di formazione, che vanno dall’informatica alle lingue, sino all’ambiente e al terzo settore. E’ un patrimonio di conoscenze rilevanti, spesso finanziate con fondi pubblici, che è quindi assolutamente logico e giusto che tornino, come formazione continua, ai cittadini.
Per alcuni versi TRIO segue la falsariga del progetto Open Courseware iniziato nel 1999 dal prestigioso Massachusett Institute of Technology. Anche in quel caso, infatti, sono a disposizione online, senza neanche la formalità della registrazione, tutti i materiali didattici preparati dai docenti del MIT (in qualche caso persone che hanno preso il premio Nobel per i loro corsi regolari.
Il modello della cultura libera è senza dubbio la strada giusta da perseguire, e dimostra la validità dei modelli di condivisione nati originariamente attorno alle comunità hacker. Anche nell’open courseware, infatti, chi mette a disposizione i propri materiali lo fa per tre motivi: ottenere un riconoscimento della sue competenze dalla comunità, salvaguardare le proprietà intellettuali, grazie all’esistenza della licenza Creative Commons, che tutela il diritto d’autore anche in assenza di transazioni commerciali e costi, e infine donare qualcosa al mondo di chi è escluso dai processi formativi.
A quando un progetto di cultura libera in Italia che coinvolga almeno le organizzazioni pubbliche che producono o acquistano formazione a distanza?
E’ di qualche giorno fa la notizia che il CNIPA, organizzazione che ha l'obiettivo primario di supportare la pubblica amministrazione nell'utilizzo efficace dell'informatica e contenere i costi dell’azione amministrativa, ha siglato un protocollo di intesa con la Regione Toscana. Scopo dell’accordo è di scambiarsi le esperienze fatte nel campo dell’e-learning e della diffusione di metodologie basate sulle nuove tecnologie per l'aggiornamento professionale dei pubblici dipendenti. La Toscana, infatti, è decisamente in una posizione avanzata in questo settore. Grazie al progetto TRIO (Tecnologie, Ricerca, Innovazione e Orientamento) la Regione mette a disposizione, gratuitamente previa registrazione, un portale dal quale è possibile fruire di oltre mille corsi di formazione, che vanno dall’informatica alle lingue, sino all’ambiente e al terzo settore. E’ un patrimonio di conoscenze rilevanti, spesso finanziate con fondi pubblici, che è quindi assolutamente logico e giusto che tornino, come formazione continua, ai cittadini.
Per alcuni versi TRIO segue la falsariga del progetto Open Courseware iniziato nel 1999 dal prestigioso Massachusett Institute of Technology. Anche in quel caso, infatti, sono a disposizione online, senza neanche la formalità della registrazione, tutti i materiali didattici preparati dai docenti del MIT (in qualche caso persone che hanno preso il premio Nobel per i loro corsi regolari.
Il modello della cultura libera è senza dubbio la strada giusta da perseguire, e dimostra la validità dei modelli di condivisione nati originariamente attorno alle comunità hacker. Anche nell’open courseware, infatti, chi mette a disposizione i propri materiali lo fa per tre motivi: ottenere un riconoscimento della sue competenze dalla comunità, salvaguardare le proprietà intellettuali, grazie all’esistenza della licenza Creative Commons, che tutela il diritto d’autore anche in assenza di transazioni commerciali e costi, e infine donare qualcosa al mondo di chi è escluso dai processi formativi.
A quando un progetto di cultura libera in Italia che coinvolga almeno le organizzazioni pubbliche che producono o acquistano formazione a distanza?
Musica incatenata
Se la pirateria informatica è un potenziale problema per tutti gli utenti di internet, essa diventa davvero una jattura per le grandi case discografiche. Il diffusissimo formato mp3, infatti, permette di archiviare un intero album musicale nello spazio di pochi megabyte. In un CD di dati entrano una decina di compilation, che possono agevolmente venire poi trasmesse a chiunque nel mondo. Le major, ovvero le case di produzione di maggiori dimensioni, tramite una apposita alleanza, da anni si battono, a volte con espedienti non del tutto lineari, contro la copia dei contenuti protetti. A tal scopo hanno anche, d’accordo alcune software house, sviluppato vari sistemi anticopia, generalmente noti con l’acronimo DRM (Digital Rights Management), che pongono limitazioni alla digitalizzazione della musica, all’ascolto su PC o in apparati diversi dal semplice CD Player. A questa situazione si è ribellato Steve Jobs, patron della Apple, maggiore produttore di lettori di MP3 (gli Ipod) e leader della vendita di musica online. A causa delle protezioni, egli afferma, diviene impossibile vendere tramite internet brani musicali, e in tal modo le major non ostacolano la pirateria, ma finiscono per incentivarla (i sistemi DRM, sostiene Jobs, sono ormai aggirabili dai veri pirati, mentre ostacolano chi vorrebbe comprare regolarmente i brani).
Un multimiliardario quindi che scende in campo in favore dei peones di Internet? Si, ma con alcune avvertenze. Jobs sta spingendo in favore del business di casa, ovviamente. ITunes, il suo servizio di vendita di musica online, ha sinora distribuito solo due milardi di brani, proprio a causa dei DRM. Ma guarda caso per tutti i brani scaricati esiste un blocco tecnologico tra iTunes e iPod, alla faccia della libera concorrenza. Altroconsumo, che ha recentemente presentato una petizione per la modifica della legge in Italia sui diritti di autore ha fatto notare che se Jobs vuole veramente fare qualcosa in favore delle legittime pretese dei consumatori deve dare un segnale concreto, iniziando a vendere sulla piattaforma iTunes musica degli artisti indipendenti e non legati alle major.
Ma la musica, che con internet si voleva libera come mai è finita in catene?
Se la pirateria informatica è un potenziale problema per tutti gli utenti di internet, essa diventa davvero una jattura per le grandi case discografiche. Il diffusissimo formato mp3, infatti, permette di archiviare un intero album musicale nello spazio di pochi megabyte. In un CD di dati entrano una decina di compilation, che possono agevolmente venire poi trasmesse a chiunque nel mondo. Le major, ovvero le case di produzione di maggiori dimensioni, tramite una apposita alleanza, da anni si battono, a volte con espedienti non del tutto lineari, contro la copia dei contenuti protetti. A tal scopo hanno anche, d’accordo alcune software house, sviluppato vari sistemi anticopia, generalmente noti con l’acronimo DRM (Digital Rights Management), che pongono limitazioni alla digitalizzazione della musica, all’ascolto su PC o in apparati diversi dal semplice CD Player. A questa situazione si è ribellato Steve Jobs, patron della Apple, maggiore produttore di lettori di MP3 (gli Ipod) e leader della vendita di musica online. A causa delle protezioni, egli afferma, diviene impossibile vendere tramite internet brani musicali, e in tal modo le major non ostacolano la pirateria, ma finiscono per incentivarla (i sistemi DRM, sostiene Jobs, sono ormai aggirabili dai veri pirati, mentre ostacolano chi vorrebbe comprare regolarmente i brani).
Un multimiliardario quindi che scende in campo in favore dei peones di Internet? Si, ma con alcune avvertenze. Jobs sta spingendo in favore del business di casa, ovviamente. ITunes, il suo servizio di vendita di musica online, ha sinora distribuito solo due milardi di brani, proprio a causa dei DRM. Ma guarda caso per tutti i brani scaricati esiste un blocco tecnologico tra iTunes e iPod, alla faccia della libera concorrenza. Altroconsumo, che ha recentemente presentato una petizione per la modifica della legge in Italia sui diritti di autore ha fatto notare che se Jobs vuole veramente fare qualcosa in favore delle legittime pretese dei consumatori deve dare un segnale concreto, iniziando a vendere sulla piattaforma iTunes musica degli artisti indipendenti e non legati alle major.
Ma la musica, che con internet si voleva libera come mai è finita in catene?
sabato, gennaio 13, 2007
Le ICT nelle imprese italiane
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
Poco prima di Natale l’Istat ha reso noto i risultati di un interessante studio, sull’uso delle
tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nelle imprese con almeno 10 addetti. Il campione, pari a 36.347 imprese, rappresenta un universo di 183.386 imprese, per un totale di 7.768.327 addetti. I risultati, come avviene ormai da molti anni, sono estremamente contraddittori e rivelano una relativa arretratezza tecnologica, sebbene selettiva, del nostro tessuto imprenditoriale. Anzitutto va detto che le imprese italiane eccellono in Europa nell’uso dei servizi di e-government messi a disposizione dalla pubblica amministrazione: ma si tratta soprattutto di svolgimento di pratiche burocratiche, finanziarie e fiscali online anziché in presenza (sinceramente chi scrive avrebbe sperato nella estinzioni di gran parte degli adempimenti burocratici, non nella loro traduzione in formato web). Ben poche invece (meno dell’8% del totale), sono le aziende che partecipano a gare d’appalto in rete (forse perche’ se ne fanno poche, ma sicuramente garantirebbero una maggiore trasparenza di procedure e risultati) e quasi nessuna (3,8%) vende i propri prodotti online. Rispetto alla media dei 25 paesi europei, tanto per segnalare qualche altro numero, le aziende italiane sono al 19° posto per possesso di un sito web (lo hanno il 57% delle imprese sopra i 10 dipendenti: nella Repubblica Ceca esiste nel 70% delle aziende) e addirittura al 24° per acquisti e vendite online (dopo di noi vi e’ solo la Lettonia). A questo va aggiunto, naturalmente, uno scarsissimo utilizzo delle ICT per migliorare il lavoro, sotto il profilo della conciliazione dei tempi e della produttività: sono solo il 4,4% del totale le aziende che permettono ai propri dipendenti di accedere alla rete aziendale dall’esterno (in altri termini di telelavorare). Anche il 2006, quindi, dovrà essere archiviato con il Paese afflitto da un’asma tecnologica: per quanto si possa voler correre, mancando sia le risorse economiche, sia la formazione alle ICT, il nostro divario aumenta anziché diminuire. Speriamo nel nuovo anno.
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
Poco prima di Natale l’Istat ha reso noto i risultati di un interessante studio, sull’uso delle
tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nelle imprese con almeno 10 addetti. Il campione, pari a 36.347 imprese, rappresenta un universo di 183.386 imprese, per un totale di 7.768.327 addetti. I risultati, come avviene ormai da molti anni, sono estremamente contraddittori e rivelano una relativa arretratezza tecnologica, sebbene selettiva, del nostro tessuto imprenditoriale. Anzitutto va detto che le imprese italiane eccellono in Europa nell’uso dei servizi di e-government messi a disposizione dalla pubblica amministrazione: ma si tratta soprattutto di svolgimento di pratiche burocratiche, finanziarie e fiscali online anziché in presenza (sinceramente chi scrive avrebbe sperato nella estinzioni di gran parte degli adempimenti burocratici, non nella loro traduzione in formato web). Ben poche invece (meno dell’8% del totale), sono le aziende che partecipano a gare d’appalto in rete (forse perche’ se ne fanno poche, ma sicuramente garantirebbero una maggiore trasparenza di procedure e risultati) e quasi nessuna (3,8%) vende i propri prodotti online. Rispetto alla media dei 25 paesi europei, tanto per segnalare qualche altro numero, le aziende italiane sono al 19° posto per possesso di un sito web (lo hanno il 57% delle imprese sopra i 10 dipendenti: nella Repubblica Ceca esiste nel 70% delle aziende) e addirittura al 24° per acquisti e vendite online (dopo di noi vi e’ solo la Lettonia). A questo va aggiunto, naturalmente, uno scarsissimo utilizzo delle ICT per migliorare il lavoro, sotto il profilo della conciliazione dei tempi e della produttività: sono solo il 4,4% del totale le aziende che permettono ai propri dipendenti di accedere alla rete aziendale dall’esterno (in altri termini di telelavorare). Anche il 2006, quindi, dovrà essere archiviato con il Paese afflitto da un’asma tecnologica: per quanto si possa voler correre, mancando sia le risorse economiche, sia la formazione alle ICT, il nostro divario aumenta anziché diminuire. Speriamo nel nuovo anno.
L’e-government nelle province
Di Patrizio Di Nicola
A che punto è il processo di informatizzazione delle Province italiane? A scattare l’ultima foto, almeno in ordine di tempo, ci ha pensato l’Istat, in collaborazione con i Centri regionali di competenza per l’e-government, strutture nate proprio per accelerare i processi di adozione delle tecnologie ICT nelle pubbliche amministrazioni. L’immagine che se ne rileva, relativa al 2005, è come sempre contraddittoria. Infatti, se da una parte 91 province su cento hanno dichiarato la presenza di uno o più uffici dedicati alle nuove tecnologie nella propria struttura organizzativa e la disponibilità di personal computer supera il 70% dei dipendenti, dall’altra si scopre l’esistenza di un enorme divario territoriale: le province del Nord-est hanno quasi un computer per dipendente (96,6%), mentre al Sud il rapporto è di uno a due (56%). Ma come si svolgono le transazioni tipiche dell’e-government? Il sito web istituzionale è il principale strumento utilizzato per fornire elettronicamente moduli e informazioni a famiglie ed aziende. Peccato però che solo nel 68,% delle province esistano servizi interattivi, che permettono ai cittadini di consultare banche dati o verificare l’avanzamento delle pratiche. Ancora di meno (solo il 30%) sono le province nelle quali è possibile l’espletamento (o la mera presentazione) di istanze online, i cosiddetti servizi transattivi. Anche in questa caso al Sud va peggio, e molto, del Nord: le transazioni online sono consentite nel 14% delle province del Mezzogiorno, contro il 62% del Nord-est.
Insomma: l’e-government rimane una chimera, e sarebbe meglio praticarlo che predicarlo.
Di Patrizio Di Nicola
A che punto è il processo di informatizzazione delle Province italiane? A scattare l’ultima foto, almeno in ordine di tempo, ci ha pensato l’Istat, in collaborazione con i Centri regionali di competenza per l’e-government, strutture nate proprio per accelerare i processi di adozione delle tecnologie ICT nelle pubbliche amministrazioni. L’immagine che se ne rileva, relativa al 2005, è come sempre contraddittoria. Infatti, se da una parte 91 province su cento hanno dichiarato la presenza di uno o più uffici dedicati alle nuove tecnologie nella propria struttura organizzativa e la disponibilità di personal computer supera il 70% dei dipendenti, dall’altra si scopre l’esistenza di un enorme divario territoriale: le province del Nord-est hanno quasi un computer per dipendente (96,6%), mentre al Sud il rapporto è di uno a due (56%). Ma come si svolgono le transazioni tipiche dell’e-government? Il sito web istituzionale è il principale strumento utilizzato per fornire elettronicamente moduli e informazioni a famiglie ed aziende. Peccato però che solo nel 68,% delle province esistano servizi interattivi, che permettono ai cittadini di consultare banche dati o verificare l’avanzamento delle pratiche. Ancora di meno (solo il 30%) sono le province nelle quali è possibile l’espletamento (o la mera presentazione) di istanze online, i cosiddetti servizi transattivi. Anche in questa caso al Sud va peggio, e molto, del Nord: le transazioni online sono consentite nel 14% delle province del Mezzogiorno, contro il 62% del Nord-est.
Insomma: l’e-government rimane una chimera, e sarebbe meglio praticarlo che predicarlo.
Spazi aperti
Di Patrizio Di Nicola
Ciascuno di noi, andando in ufficio, sogna di lavorare in uno spazio aperto, magari con visioni celestiali: prati verdi, papaveri rossi, dune di sabbia e scogliere incontaminate. Invece, al massimo, abbiamo davanti un muro. Se siamo fortunati sul muro c’e’ un poster o un quadro. Se la sfortuna ci perseguita, sul poster c’e’ scritto qualcosa relativamente alla nostra produttività. L’idea di cambiare questo stato di cose “buttando giù i muri dell’ufficio” venne, all’inizio degli anni Sessanta, a un designer americano, Robert Propst, che immaginò l’ufficio come un open space: non più muri alti sino al soffitto, ma bassi pannelli che chiudono gli spazi individuali quel tanto che basta per garantire la privacy durante le fasi di lavoro “a testa bassa”, ma che al contempo garantiscono, una volta in piedi, il contatto con gli altri. Una ottima idea, a prima vista: aumenta la socialità, ma salvaguardia la necessità di concentrazione. Solo che le aziende, sempre più attente ai risparmi che alla qualità della vita degli individui, hanno colto l’idea per concentrare in spazi sempre più piccoli (e rumorosi) centinaia di impiegati. L’open space, infatti, è oggi associato, più che all’idea di movimento (questa la filosofia proposta da Propst nel 1968 con il nome Action Office) a quella di cubicolo: uno spazio minimo ed ottimizzato, ove al dipendente è chiesto di lavorare in maniera impersonale e standardizzata. Wired, la nota rivista americana profeta della Net Economy, dice che i cubicoli "sono appena più ampi di una bara e appena più piccoli di una cella di San Quintino". Quindi un posto ottimale per farci lavorare un knowledge worker in attesa di renderlo milionario grazie alle stock option? Peccato che poi questo si senta poco o nulla diverso da un pollo in batteria. Che magari sforna uova d’oro per gli azionisti della sua impresa. I quali davvero veleggiano tra mari incontaminati e spiagge dorate.
Di Patrizio Di Nicola
Ciascuno di noi, andando in ufficio, sogna di lavorare in uno spazio aperto, magari con visioni celestiali: prati verdi, papaveri rossi, dune di sabbia e scogliere incontaminate. Invece, al massimo, abbiamo davanti un muro. Se siamo fortunati sul muro c’e’ un poster o un quadro. Se la sfortuna ci perseguita, sul poster c’e’ scritto qualcosa relativamente alla nostra produttività. L’idea di cambiare questo stato di cose “buttando giù i muri dell’ufficio” venne, all’inizio degli anni Sessanta, a un designer americano, Robert Propst, che immaginò l’ufficio come un open space: non più muri alti sino al soffitto, ma bassi pannelli che chiudono gli spazi individuali quel tanto che basta per garantire la privacy durante le fasi di lavoro “a testa bassa”, ma che al contempo garantiscono, una volta in piedi, il contatto con gli altri. Una ottima idea, a prima vista: aumenta la socialità, ma salvaguardia la necessità di concentrazione. Solo che le aziende, sempre più attente ai risparmi che alla qualità della vita degli individui, hanno colto l’idea per concentrare in spazi sempre più piccoli (e rumorosi) centinaia di impiegati. L’open space, infatti, è oggi associato, più che all’idea di movimento (questa la filosofia proposta da Propst nel 1968 con il nome Action Office) a quella di cubicolo: uno spazio minimo ed ottimizzato, ove al dipendente è chiesto di lavorare in maniera impersonale e standardizzata. Wired, la nota rivista americana profeta della Net Economy, dice che i cubicoli "sono appena più ampi di una bara e appena più piccoli di una cella di San Quintino". Quindi un posto ottimale per farci lavorare un knowledge worker in attesa di renderlo milionario grazie alle stock option? Peccato che poi questo si senta poco o nulla diverso da un pollo in batteria. Che magari sforna uova d’oro per gli azionisti della sua impresa. I quali davvero veleggiano tra mari incontaminati e spiagge dorate.
Meglio il riposo
Di Patrizio Di Nicola
Le finanze delle compagnie aeree sono tutt’altro che floride, lo sappiamo. A rendere un business promettente un vero incubo manageriale hanno contribuito varie cose: l’aumento dei carburanti, i maggiori costi per la sicurezza di aeroporti e aerei, l’aumento della concorrenza seguita alla nascita delle compagnie low cost. Ma un ruolo importante lo giocano anche gli errori di valutazione dei manager, che a volte dimostrano di sapere poco dei loro passeggeri e dell’umanità in genere. Prendiamo il caso delle connessioni hi speed ad Internet in volo. Qualche anno fa è nata una tecnologia, chiamata Connexion, sviluppata dalla Boeing al fine di permettere la navigazione su rete satellitaria durante il volo. L’aziende aerea pare abbia speso, per sviluppare tale meraviglia tecnologica, oltre un miliardo di dollari, superando problemi tecnici di non piccola portata. Ora arriva la notizia, tramite il web dell’azienda, che il servizio verrà dismesso. Motivo? I clienti disponibili a pagare circa 10 dollari per un’ora di connessione in volo, in due anni, sono stati pochissimi. Una ricerca approfondita svolta dalla Boeing (ma perché la avranno fatta dopo avere introdotto il servizio e non prima?) ha dimostrato che gli executive, durante il volo, non sono interessati a lavorare su Internet, quanto a vedersi un buon film o a farsi una dormitina. Non mi sembra un comportamento difficile da intuire: basta guardarsi intorno in aereo o in treno per rendersi conto di come le persone si comportano . Bisogna essere un po’ workhaolic (il termine, molto usato negli USA, indica coloro che non riescono a staccarsi dal lavoro: una vera e propria malattia, per la quale sono sorte cliniche specializzate, che raccomandiamo ai manager delle compagnie aeree) per pensare che nel viaggio tra un lavoro e l’altro quello che i passeggeri vogliono sia soprattutto lavorare come in ufficio. Ma i passeggeri, poi, si prendono la rivincita.
Di Patrizio Di Nicola
Le finanze delle compagnie aeree sono tutt’altro che floride, lo sappiamo. A rendere un business promettente un vero incubo manageriale hanno contribuito varie cose: l’aumento dei carburanti, i maggiori costi per la sicurezza di aeroporti e aerei, l’aumento della concorrenza seguita alla nascita delle compagnie low cost. Ma un ruolo importante lo giocano anche gli errori di valutazione dei manager, che a volte dimostrano di sapere poco dei loro passeggeri e dell’umanità in genere. Prendiamo il caso delle connessioni hi speed ad Internet in volo. Qualche anno fa è nata una tecnologia, chiamata Connexion, sviluppata dalla Boeing al fine di permettere la navigazione su rete satellitaria durante il volo. L’aziende aerea pare abbia speso, per sviluppare tale meraviglia tecnologica, oltre un miliardo di dollari, superando problemi tecnici di non piccola portata. Ora arriva la notizia, tramite il web dell’azienda, che il servizio verrà dismesso. Motivo? I clienti disponibili a pagare circa 10 dollari per un’ora di connessione in volo, in due anni, sono stati pochissimi. Una ricerca approfondita svolta dalla Boeing (ma perché la avranno fatta dopo avere introdotto il servizio e non prima?) ha dimostrato che gli executive, durante il volo, non sono interessati a lavorare su Internet, quanto a vedersi un buon film o a farsi una dormitina. Non mi sembra un comportamento difficile da intuire: basta guardarsi intorno in aereo o in treno per rendersi conto di come le persone si comportano . Bisogna essere un po’ workhaolic (il termine, molto usato negli USA, indica coloro che non riescono a staccarsi dal lavoro: una vera e propria malattia, per la quale sono sorte cliniche specializzate, che raccomandiamo ai manager delle compagnie aeree) per pensare che nel viaggio tra un lavoro e l’altro quello che i passeggeri vogliono sia soprattutto lavorare come in ufficio. Ma i passeggeri, poi, si prendono la rivincita.
Passaporto nightmare
Di Patrizio Di Nicola
D’estate, si sa, si parte per le vacanze. Si pianifica il viaggio, si ragiona delle valigie e di cosa metterci dentro, si pensa a chi potrà prendersi cura delle piante o del gatto casalingo, poi via. Anzi no. Se la nostra meta e’ una località negli Stati Uniti sono guai, in quanto molto probabilmente dovremo richiedere un nuovo passaporto e ci sono discrete possibilità che dovremo cambiare destinazione, in quanto lo Stato italiano non sarà in grado di consegnarci il documento in tempo per la partenza. Con l’entrata in vigore (negli USA, non in Italia) delle norme anti terrorismo il governo americano ha deciso che chi vuole entrare nel loro territorio senza sottoporsi alla lunga e costosa procedura di rilascio del visto deve avere un passaporto dotato di foto digitale (quindi stampata da computer direttamente sul documento). Le questure italiane non dispongono ovunque dei macchinari necessari per l’emissione dei nuovi passaporti (le finanziarie passate, come noto, hanno ridotto gli stanziamenti, non certo aumentati). Ciò comporta la concentrazione delle richieste in alcuni uffici che, sommato al fatto che la grandissima percentuale di richieste si concentrano nei mesi estivi, fa saltare tutti i tempi. Al momento la Questura di Roma, ad esempio, preventiva circa 60 giorni per il rilascio del documento (la legge 1185 del 1967, che nonostante sia stata emanata tanti anni prima dell’avvento delle nuove tecnologie, prometteva il rilascio in 15 giorni, che al massimo potevano raddoppiare) . Ma prima bisogna prendere al volo la fortuna, e riuscire a conquistare uno dei 200 numeretti che, distribuiti molto prima dell’orario di apertura degli uffici, permettono di presentarsi fisicamente allo sportello per “iniziare la pratica”. Certo, chi non ha fretta può evitare la trafila e, pagando 20 euro in più, da alcuni giorni può rivolgersi alle Poste per il rilascio del passaporto. I tempi si allungano, garantito.
Ma l’Italia non è, come ci hanno detto più volte i ministri “competenti”, all’avanguardia nell’e-government? Allora come si spiega che, dal 1967 ad oggi i tempi per rilasciare un documento si siano espansi anziché ridursi? Viene il dubbio che l’e-government sia soprattutto un mezzo con cui l’amministrazione statale incassa le tasse dai cittadini più rapidamente e con meno spese. Come diceva Totò? Ma mi faccia il piacere!
Di Patrizio Di Nicola
D’estate, si sa, si parte per le vacanze. Si pianifica il viaggio, si ragiona delle valigie e di cosa metterci dentro, si pensa a chi potrà prendersi cura delle piante o del gatto casalingo, poi via. Anzi no. Se la nostra meta e’ una località negli Stati Uniti sono guai, in quanto molto probabilmente dovremo richiedere un nuovo passaporto e ci sono discrete possibilità che dovremo cambiare destinazione, in quanto lo Stato italiano non sarà in grado di consegnarci il documento in tempo per la partenza. Con l’entrata in vigore (negli USA, non in Italia) delle norme anti terrorismo il governo americano ha deciso che chi vuole entrare nel loro territorio senza sottoporsi alla lunga e costosa procedura di rilascio del visto deve avere un passaporto dotato di foto digitale (quindi stampata da computer direttamente sul documento). Le questure italiane non dispongono ovunque dei macchinari necessari per l’emissione dei nuovi passaporti (le finanziarie passate, come noto, hanno ridotto gli stanziamenti, non certo aumentati). Ciò comporta la concentrazione delle richieste in alcuni uffici che, sommato al fatto che la grandissima percentuale di richieste si concentrano nei mesi estivi, fa saltare tutti i tempi. Al momento la Questura di Roma, ad esempio, preventiva circa 60 giorni per il rilascio del documento (la legge 1185 del 1967, che nonostante sia stata emanata tanti anni prima dell’avvento delle nuove tecnologie, prometteva il rilascio in 15 giorni, che al massimo potevano raddoppiare) . Ma prima bisogna prendere al volo la fortuna, e riuscire a conquistare uno dei 200 numeretti che, distribuiti molto prima dell’orario di apertura degli uffici, permettono di presentarsi fisicamente allo sportello per “iniziare la pratica”. Certo, chi non ha fretta può evitare la trafila e, pagando 20 euro in più, da alcuni giorni può rivolgersi alle Poste per il rilascio del passaporto. I tempi si allungano, garantito.
Ma l’Italia non è, come ci hanno detto più volte i ministri “competenti”, all’avanguardia nell’e-government? Allora come si spiega che, dal 1967 ad oggi i tempi per rilasciare un documento si siano espansi anziché ridursi? Viene il dubbio che l’e-government sia soprattutto un mezzo con cui l’amministrazione statale incassa le tasse dai cittadini più rapidamente e con meno spese. Come diceva Totò? Ma mi faccia il piacere!
Iscriviti a:
Post (Atom)