lunedì, giugno 30, 2008

LA FORMAZIONE DEI GIOVANI ITALIANI ALL’ESTERO E L’UNIVERSITà



1.
Che tra le leve strategiche per la competitività di una nazione vi sia la formazione è ormai cosa nota. E’ infatti dimostrata l’esistenza di un legame strettissimo tra gli investimenti nelle risorse umane e la crescita della produttività del lavoro e del benessere economico. Il legame fra formazione e produttività è amplificato dalle trasformazioni politiche ed economiche avvenute su scala planetaria, i quali a loro volta hanno un impatto immediato sui modelli e sui sistemi di formazione. Non è un caso che Paesi quali Singapore, la Repubblica di Corea, l’India, che hanno dato vita al cosiddetto “miracolo asiatico”, lo abbiano fatto anche attraverso un costante investimento competitivo sulla formazione e l’educazione.
Le aziende hanno reagito velocemente, seppur in maniera un po’ scomposta, alla disponibilità e alla crucialità di personale sempre più qualificato, innescando quella che è stata chiamata “guerra dei talenti”: nella ricerca spasmodica di persone sempre più istruite, hanno considerato il talento un bene scarso, da accaparrare a qualsiasi costo.
Tali trasformazioni hanno creato forti tensioni all’interno dei sistemi formativi. Anzitutto sono emersi, anche sull’onda della cosiddetta Net Economy, alcuni poli di eccellenza: non è un caso che gli enfants prodige della Silicon Valley, malgrado le leggende in circolazione su garage paterni in cui si sperimentavano idee folli, vengono tutti dalle università dell’Ivy League: Columbia, Princeton, Yale, e poche altre.
In queste università, è venuto meno il modello tradizionale di formazione che attribuiva all’insegnante e all’organizzazione universitaria la completa responsabilità delle decisioni riguardanti l’oggetto, le finalità, le modalità e i tempi dell’apprendimento, lasciando allo studente un ruolo assolutamente subordinato e marginale, consistente nel seguire le istruzioni dell’insegnante. Nella fase attuale, viceversa, il “potere” nel processo formativo si sposta verso i discenti. E’ in forte crescita la capacità delle persone di essere autonome, il che comporta una maggiore partecipazione e personalizzazione del progetto di apprendimento. Studiare oggi significa attivare una ricerca in cui la persona mira a qualcosa di nuovo, in cui il docente assume il ruolo di mediatore interculturale, e il ruolo organizzato delle istituzioni è sempre meno direttivo.

2.
In tale contesto fortemente complessificato si iscrive il capitolo della formazione degli Italiani all’estero. Essa, spesso, viene perseguita dalle autorità italiane secondo un modello ipertradizionale di “supporto all’occupazione”, nel paese di residenza, ovvero in caso di rientro in patria. Si da quindi per scontato che l’Italiano all’estero sia un soggetto da addestrare all’uso di particolari macchinari, ovvero da orientare al fine di permettergli di trovare un lavoro, al quale va fornita soprattutto una professione, a volte “old economy”. Si tratta di una visione che manca di una seppur minima ambizione strategica.
Oggi la fuoriuscita di italiani dai confini, specialmente quella verso gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia, assume le caratteristiche prevalentemente di un’emigrazione intellettuale: temporanea, come avviene nel caso degli studenti che si recano all’estero per seguire corsi di specializzazione universitari, o per i dipendenti delle aziende multinazionali, ma che può in diversi casi divenire permanente, tanto che si parla con sempre più insistenza di «fuga dei cervelli».
Basti qualche numero per rendersi conto del fenomeno dell’attrattività di alcuni milieu americani: alla data del 15 gennaio 2008, negli Usa risiedevano 979 mila stranieri con un visto di studio. Oltre 110 mila erano in una Università Californiana, 85 mila a New York, e 113 mila studiano in un programma di dottorato di ricerca post laurea. Ma possiamo leggere la fuga dei cervelli anche da un altro versante, tutto interno alla Comunità Europea. Questa la storia: recentemente si sono concluse le valutazioni per l’assegnazione dei fondi a giovani ricercatori da parte del Consiglio Europeo delle Ricerche. Si tratta di un fondo assegnato a progetti sulla base del solo merito scientifico, una vera rarità per alcuni versi. I vincitori, circa 300 in tutta Europa, possono decidere in quali Nazioni “spendere” il loro assegno di ricerca. Scelta, ovviamente, che dipende dalla fama delle Università e dalle attrezzature che verranno messe a disposizione dei ricercatori. Ebbene, gli italiani che hanno concorso alla borsa di studio sono stati oltre 1600 (a fronte di 600 domande dalla Francia, ad esempio), a riprova che per un giovane ricercatore in patria c’e’ pochissimo spazio per lavorare. I vincitori italiani sono stati 35 (non male, se comparati ai 32 francesi o 30 inglesi). Purtroppo, di questi, solo 22 hanno scelto di rimanere in Italia; 13 andranno in altre Nazioni, mentre dall’estero ne arriveranno solo tre. Se guardiamo al Regno Unito capiamo cosa significa essere competitivi in questo settore: dei 30 ricercatori inglesi, 24 restano li, e ad essi si aggiungono ben 34 studiosi di altri Paesi (tra cui 6 nostri) che hanno scelto di trasferirsi in una università della Gran Bretagna. E più o meno lo stesso accade in Francia. Per noi, una occasione persa.

3.
Oggi, una nazione come l’Italia che volesse spendere bene i fondi per la formazione dei compatrioti all’estero non ha altra scelta che concentrare tutte le risorse possibili al fine di costruire un progetto di valorizzazione dei nostri “cervelli all’estero”. A poco vale la velleitaria idea di “far rientrare i cervelli”, almeno in assenza di una nuova politica nazionale per la ricerca scientifica di ampio respiro (ad esempio su 25 anni). Chi se ne è andato nella stragrande maggioranza dei casi lo ha fatto per necessità. Come notava ben cinque anni fa Claudia Di Giorgio, gli scienziati italiani "non sono partiti come liberi viaggiatori del mondo, non si sono globalizzati: è stata la mancanza di opportunità a farli andare via. Sono stati esportati. E il ritmo di questa esportazione si va facendo progressivamente più accelerato, via via che i ripetuti blocchi di assunzioni e i continui tagli finanziari - e le politiche baronali nell'Università - rendono sempre più improbabile ottenere posizioni permanenti nelle Università e negli enti di ricerca" . A queste persone, almeno nella loro fase iniziale della carriera all’estero, è possibile erogare moduli formativi intesi a renderli ricettivi nei confronti delle occasioni che l’Italia può offrire loro, pur rimanendo all’estero. Essi possono costituire una testa di ponte, nei paesi dove risiedono, per le imprese italiane, al fine di conoscere meglio i mercati e penetrarli con maggiore sicurezza. E ciò si applica non solo al sistema economico, ma anche alla cultura con annessi e connessi.
Sono richiesti, quindi, progetti formativi bidirezionali, in modo che i cittadini italiani all’estero conoscano meglio le occasioni offerte dal nostro sistema Paese (sempre che sia possibile spiegarlo), e le organizzazioni italiane capiscano la potenzialità dei nostri cervelli all’estero. Altrimenti, le poche risorse che abbiamo verranno sprecate.

giovedì, giugno 12, 2008

Quando la meraviglia finisce
Di Patrizio Di Nicola

Vi sono delle regole di bon ton che sconsigliano vivamente di parlare male dell’e-government e di chi lo attua. E’ giusto, viste le diffidenze che devono superare. Ma a volte la buone educazione rischia di diventare omertosa. Per questo è utile segnalare le false innovazioni che ci vengono a volte dal mondo dell’e-government. Un esempio per capirci meglio. Qualche giorno fa, un portale informativo dava con risalto la notizia che una ASL abruzzese, tra le poche in Italia, avrebbe iniziato a trasmettere via Internet all'Inail le denunce di infortuni sul lavoro. Niente carta, zero burocrazia, invio dei dati in tempo reale: vantaggi permessi dalle nuove tecnologie del Web, spiegano i responsabili del progetto. Certo, un bel vantaggio, ma cosa c’entra il governo online? Esiste, dagli albori di Internet, una tecnologia molto semplice, l’email, che permette a chiunque di inviare documenti, testi, immagini e quant’altro ci possa venire in mente, in una frazione di secondo e a costi praticante nulli. Forse gli strateghi dell’e-government si sono distratti, ma nell’autunno del 1971 Raymond Tomlinson inviò su ARPANet - la rete militare da cui deriva Internet, la prima email della storia; a lui, tra l’altro, si deve anche l'idea di usare il simbolo "@" per dividere il nome dell’utente da quello del server . Da allora moltissima acqua è passata sotto i ponti, e le email spedite ogni giorno sono circa 31 miliardi. Allora perché le nostre amministrazioni pubbliche non le usano abitualmente, per i lavori di tutti i giorni? Perché, anziché utilizzare la tecnologia più semplice che si ha a disposizione si preferisce creare costosi portali pseudo interattivi, che per un verso o per l’altro, quasi sempre funzionano male? Io, sinceramente, inizio a stancarmi di questa economia dello spreco di risorse pubbliche che ruota attorno ad Internet. Vorrei, cortesemente, tornare alle origini: datemi l’indirizzo di posta elettronica del funzionario che ha in mano la mia pratica, e fate solo in modo che possa rispondermi in breve tempo. E che i file i ministeri se li scambino con belle email, proprio come facciamo noi ogni giorno.
Redditi online

Di Patrizio Di Nicola

I redditi degli italiani, ma soprattutto i funzionari che li custodiscono, hanno fatto la conoscenza di internet. Giusta o sbagliata che sia stata la decisione, qualcuno, dagli uffici del ministero dell’Economia, ha creato un file con tutti i dati degli italiani e lo ha pubblicati sul sito web del ministero. Sin qui nulla di anomalo (o forse tutto sbagliato, dipende da come la pensate: i punti di vista, almeno tra gli utenti, sono differenti). Quel che invece stupisce è la profonda ignoranza circa i meccanismi che regolano - o non regolano, è meglio dire - Internet. Infatti, chiunque abbia cercato di scaricare il file direttamente dal sito del ministero, si è subito reso conto che la larghezza di banda (cioè la capacita’ di trasmissione del web del governo) era assolutamente insufficiente a soddisfare le richieste di tutti gli utenti. Così, qualcuno di buona volontà o forse particolarmente malizioso, una volta riuscito a trasferire nel proprio computer il file, lo ha messo in condivisione tramite una rete peer-to-peer, quelle che si pensa servano soltanto a scambiarsi illegalmente musica e film. Il risultato è stato di moltiplicare per mille o più le fonti da cui poteva avvenire il download. Da quel momento in poi la circolazione delle informazioni è diventata un fiume in piena. La decisione, presa dopo qualche giorno, di ritirare le informazioni dal sito dell’Agenzia delle Entrate, non tocca minimamente i dati in circolazione tramite le reti E-Mule e simili. E l’avere reso illegale la circolazione incontrollata dei dati, se riesce a bloccare i tentativi di speculazione più sfacciati (e-Bay, il sito di vendita online tra privati, ha sospeso le aste avente per oggetto i redditi) poco o nulla può fare contro i file condivisi tramite la memoria dei PC di singoli utenti.
Questa storia ci auguriamo serva a richiamare l’attenzione sulle enormi possibilità di Internet. Chi pensa che tutto inizi e finisca con i siti web o con i grandi portali informativi sottovaluta la rete, che sempre di più vive davvero nei processi di condivisione delle conoscenze tra singoli utenti, senza divieti né garanti che tengano.
E-Government e clientele

Di Patrizio Di Nicola

C’è qualcosa che non funziona nell’E-Government italiano. Infatti, da una parte le pubbliche amministrazioni non fanno passare settimana senza annunciare nuovi progetti, presentare entusiasti rendiconti di quanto fatto nei mesi precedenti, o comparando gli sviluppi italiani con quelli comunitari, sostenendo ovviamente che l’Italia è all’avanguardia nei servizi telematici al cittadino. Dall’altra parte, invece, le industrie del settore esprimono pareri molto più cauti se non addirittura negativi. Così, leggendo l’ultimo rapporto Assinform sulle ICT, scopriamo che in Italia crescono molto i digital users, persone che utilizzano in modo innovativo le tecnologie, ma le aziende e le pubbliche amministrazioni non sono abbastanza svelte nel fornire loro i servizi di cui hanno necessità. Ci troviamo di fronte a un profondo deficit di innovazione, che colpisce tutti i settori, pubblici e privati. Ma la PA soffre di un paio di malanni aggiuntivi: anzitutto ha molto investito in tecnologie di front office, senza curarsi troppo di aumentare l’efficienza del back office. Questo ha comportato, di fatto, una scarsa interattività dei servizi, con la conseguenza che da noi solo il 16% dei cittadini utilizza i siti della PA, contro il 25% della Spagna, il 32% della Germania e oltre il 50% dei paesi scandinavi. Più grave ancora è il fatto che l’E-Government assomiglia a un gigantesco sistema che la PA usa per finanziare sé stessa: secondo lo studio Assinform, nel 2007 il 50% della spesa in tecnologie e’ finito, spesso senza gare, nella casse delle aziende in house di Comuni, Province, Regioni e Ministeri. E’ evidente che, in tale contesto non conti molto la qualità e l’innovatività di quello che si realizza grazie alle nuove tecnologie, ma l’occupazione che si crea nell’indotto pubblico.
A riprova di quanto detto una esperienza personale: qualche mese fa chi scrive ha inviato, a oltre 100 Comuni laziali, una lettera per presentare un progetto inteso a realizzare forme innovative di telelavoro per il miglioramento dei servizi ai cittadini. Riuscite ad immaginare quanti hanno risposto, se non altro per saperne di più? Si, la risposta la conoscete: nessuno.