mercoledì, dicembre 24, 2008

Lavorare meno, lavorare tutti?

Sacconi, dopo aver pensato di far lavorare di più gli italiani allungando l'eta pensionabile, ora vuole farli lavorare di meno, riducendo la giornata lavorativa a 4 giorni. Ottima idea. Basterebbe:
- estendere la cassa integrazione a tutte le imprese;
- mettere tutti i lavoratori in cassa integrazione il venerdi, come la Fiat fa spesso durante l'anno sin dal 1960.

La nuova pensata di Sacconi non e' che nasconde la volonta' di far pagare la settimana cortissima ai lavoratori?
Lavori un giorno in meno, prendi il 20% in meno. L'azienda ci guadagna, in quanto non paga lo stipendio e si prende una maggiore produttivita' (come noto il venerdi e' il giorno peggiore per le imprese: i lavoratori sono stanchi).
Solo una piccola controindicazione: tra crisi e impoverimento, poi ci ritroveremo con almeno il 20% in piu' di lavoro nero, e a prezzi stracciati. Con grande vantaggio per le aziende che evadono le tasse.

Speriamo che sia la solita dichiarazione delle 9 e smentita a mezzogiorno.

Noi abbiamo altri problemi: secondo l'Istat di oggi, è salita dal 14,6% al 15,4% il numero delle famiglie che ha dichiarato di arrivare con molta difficoltà alla fine del mese. L'Istat rileva «segnali di disagio particolarmente marcati» al sud e nelle isole, e in particolare in Sicilia dove sale al 10,1% il numero di famiglie con problemi di risorse per il cibo.

(Fonte: http://www.corriere.it/economia/08_dicembre_22/istat_soldi_cibo_5d31ad60-d01d-11dd-b6ee-00144f02aabc.shtml?fr=box_primopiano)
Gli auguri della TIM

Ricevo dalla Tim questo SMS:

"TIM ti augura buone feste! In palio solo per OGGI un BUONO SPESA da 10.000 Euro! Rispondi SI a questo SMS e sei nei sorteggi! 1,2E per 1 contenuto. Reg.4500.it"

Ma non vi sembra che sia ingannevole? Mica e' tanto chiaro che se rispondi ti tolgono 1 Euro + Iva dal credito. Questo dovrebbe significare "1,2E per 1 contenuto. Reg.4500.it", almeno credo.

Alla faccia degli auguri!

sabato, dicembre 20, 2008

Asini e ministri

Di Patrizio Di Nicola

Viviamo in un mondo digitale, lo diciamo quasi ogni giorno. Vuol dire, tra l’altro, che abbiamo accesso in tempo reale a miriadi di informazioni su base planetaria. Ma ciò non significa automaticamente che ne sappiamo di più su tutto: il rischio di sbagliare, quando le informazioni vengono trattate con superficialità, è ancora maggiore che nel vecchio mondo analogico. Un esempio di quanto sia facile “prendere fischi per fiaschi” ci viene da due ministri dell’attuale governo. Gli onorevoli Brunetta e Rotondi, nel corso di alcuni dibattiti televisivi sui presunti sprechi delle università, citavano ripetutamente, avendolo trovato probabilmente nel database informatico del ministero della ricerca, il caso di un finanziamento (peraltro di poche decine di migliaia di Euro) utilizzato dall’Università di Pisa per studiare la conservazione dell’Asina del Monte Amiata. Inutile dire che tale studio veniva portato dai due politici quale esempio di ricerca inutile, ovviamente da tagliare in un’ottica efficientistica. Soldi pubblici buttati al vento, insomma. A ristabilire la verità ci ha pensato il titolare della ricerca, un serissimo professore di veterinaria, che in una lettera aperta pubblicata su internet spiegava pazientemente ai due ministri che la sua ricerca aveva lo scopo di mantenere in esistenza un animale a rischio di estinzione, il cui latte rappresenta l’unico nutrimento possibile per neonati afflitti da gravi intolleranze alimentari, e che pertanto non possono essere allattati al seno materno. Inutile dire che dal finanziamento sono scaturiti ben 26 saggi, articoli e comunicazioni a convegni, in Italia e all’estero. Dove sono molto interessati a questa ricerca italiana, che la comunità scientifica evidentemente non considera inutile. In definitiva, grazie al mondo digitale, scopriamo che gli Asinelli non sono soltanto sul Monte Amiata: vanno anche a Ballarò, e camminano su due zampe.
Università telematiche

Di Patrizio Di Nicola

In questi giorni di agitazione, si è molto parlato del sistema universitario italiano, sia per difenderlo che per attaccarlo, magari solo allo scopo di “fare cassa” togliendogli le risorse per il normale funzionamento. Ma non vi è dubbio che alcune debolezze esistono nelle nostre accademie. L’estrema frammentazione, in termini sia di sedi che di corsi di laurea è una di queste. Purtroppo la frammentazione esiste anche online: proliferano sia i corsi di laurea online, sia le università telematiche. Secondo il rapporto Omniacom 2007, in quell’anno esistevano ben 222 corsi erogati da 45 atenei, con un numero di iscritti pari a 48.391 (l’incremento, rispetto al 2005/06, è stato del 21,5 %). Si tratta di un mercato di oltre 84 milioni di euro, considerando che le tasse di iscrizione ai corsi a distanza sono mediamente quasi doppie rispetto all’università tradizionale. Ma in Italia esistono anche le Università Telematiche: si tratta di strutture quasi esclusivamente virtuali, autorizzate dall’allora ministro dell’Istruzione Moratti, e viste con sospetto dal suo successore Mussi che ne ha fermato lo sviluppo. Nel 2007 erano nove enti, per un totale di 9.376 iscritti. La più grande di tutte è l'Università Telematica Marconi di Roma con l’81,4% del mercato totale. Il panorama delle lauree online, quindi, è estremamente polverizzato: troppe università spendono soldi per offrire corsi a pochi studenti – e spesso di tratta di poco più di lezioni in videoconferenza - mentre il modello dell’e-learning ha i maggiori vantaggi nella condizione opposta: quando poche istituzioni offrono corsi certificati e di alta qualità a milioni di studenti online che sono in grado, grazie a sofisticate tecnologie, di apprendere e cooperare in rete. Purtroppo la malattia del particolarismo, che affligge le nostre università tradizionali, ha ormai contagiato anche quelle online e non si vede all’orizzonte un medico esperto.

lunedì, ottobre 20, 2008

Economia ingiusta
Ponti d’oro al manager che fugge
(articolo pubblicato all'indirizzo
http://www.rassegna.it/articoli/2008/10/17/38192/ponti-doro-al-manager-che-fugge)

Il più pagato nel 2007 lavorava alla Johnson & Johnson, che ebbe la crescita più deludente. Un’ingiustizia da piani alti del capitalismo. E i salari delle persone normali sono sempre più bassi. "Produci di più, guadagni di più": ma non vale per tutti

di Patrizio Di Nicola


Da oltre dieci anni tutti i paesi industrializzati perseguono, a torto o a ragione, una politica di moderazione salariale. Nato dall’esigenza di tenere bassa l’inflazione, il contenimento delle spinte retributive ha trovato giustificazione nella convinzione che gli aumenti in busta paga, se non legati all’incremento di produttività, non avrebbero creato benessere duraturo né per le imprese né per i lavoratori. Così, sia adottando le politiche centralizzate di predeterminazione dei tassi di inflazione, sia tramite operazioni sulla retribuzione oraria minima, ovvero grazie alla contrattazione locale, tutti i paesi sviluppati hanno compresso gli aumenti retributivi.

Qualcosa, però, non ha funzionato: la teoria non prevedeva che i lavoratori si sarebbero impoveriti. Invece così è stato, e in molte parti del mondo il potere d’acquisto dei titolari di redditi fissi si è ridotto considerevolmente. In Italia, ad esempio, negli ultimi 5 anni il calo è stato del 10 per cento; negli Usa ancora di più.

Ma vi è un luogo ove tutto ciò non è avvenuto: si tratta dei piani alti delle aziende, ove vivono i top manager che dirigono le imprese. Per loro, come vedremo, le regole del mercato si applicano in maniera molto discrezionale. Va detto, anzitutto, che è davvero difficile conoscere gli stipendi dei manager, e ciò sia per la naturale riservatezza delle imprese, che troverebbero complesso spiegare alcune retribuzioni “top”, sia per la complessità delle buste paga, che prevedono almeno altre quattro diverse voci oltre la retribuzione: la quota variabile con i risultati, le opzioni azionarie, i benefit e le gratifiche. Ma le voci possono facilmente diventare decine, con alcune indennità erogate nell’anno in corso, altre a distanza di tempo. In tale generalizzata riservatezza, di tanto in tanto si intrufola un giornalista o uno studioso, e svela, tra lo scandalo generale, a quanto ammonta la total compensation dei capi d’azienda.

Negli Usa, secondo Business Week, i Ceo delle 5 maggiori aziende private hanno incassato nel 2007 tra i 16,7 e i 31,9 milioni di dollari. In media il capo azienda di una delle 500 imprese del listino azionistico S&P guadagna in tre ore quanto un dipendente in un anno. In Europa la situazione non sembra molto dissimile (magari è solo un po’ meno nota). Su Fortune International del 7 ottobre 2006, l’esperto Abrahm Lustgarten profila i 25 manager più pagati d’Europa, trovando redditi che vanno da 4,5 ai 32 milioni di dollari, solo in minima parte (tra il 5 e il 20 per cento) erogati in forma di salario. I più pagati sono i manager francesi, ma nell’elenco figurano un po’ tutte le nazionalità. Gli italiani presenti nella golden list erano tre: Marchionne (Fiat), Tronchetti Provera (Telecom), Scaroni (Eni).

Quello che più stupisce, però, non è tanto l’importo delle retribuzioni dei manager, che ad alcuni potrebbe sembrare scandaloso, quanto l’assenza di mercato e di trasparenza nella determinazione delle stesse. Per tornare al caso delle 5 maggiori aziende Usa, ad esempio, il manager più pagato nel 2007 lavorava alla Johnson & Johnson, che in quell’anno ebbe la crescita azionaria più deludente: appena 3,6 per cento se comparata al +24,3 della ExxonMobil, il cui Ceo si è portato a casa “appena” 16,7 milioni di dollari, cioè la metà dell’altro. Un’evidente ingiustizia da piani alti del capitalismo mondiale. Tali disparità sono diffuse in tutta l’economia americana, ove non esiste un valore di riferimento che lega le compensazioni dei manager ai guadagni dell’impresa. Senza citare poi i casi eclatanti, come quelli di presidenti e amministratori che, dopo aver portato le imprese sull’orlo del fallimento, se ne vanno con bonus milionari, essendosi costruiti delle autostrade d’oro per facilitare la fuga dall’impresa in crisi.

Insomma, possiamo definire quella dei top manager una vera e propria giungla retributiva, che si è espansa rapidamente a partire dagli anni Novanta. Secondo John McCall, della Saint Joseph’s University di Philadelphia, in quella decade le retribuzioni dei lavoratori americani sono aumentate mediamente del 37 per cento, mentre quelle dei manager del 571 per cento. Questi ultimi, all’inizio del 1980, avevano una retribuzione circa 40 volte più alta di un lavoratore medio, mentre all’inizio del 2000 il rapporto era passato a 500. Per disegnare una figura semplice, se per i lavoratori dipendenti si fossero applicate le stesse percentuali di aumento, il loro salario ora sarebbe di oltre 120 mila dollari l’anno, non di 24 mila.

Alfred Rappaport, su Harvard Business Review di marzo-aprile 1999, sostiene che, utilizzando gli schemi retributivi convenzionali, spesso i top manager vengono premiati anche quando la loro azienda va male. Nelle fasi di crescita dei mercati, infatti, tanto le imprese che ottengono buoni risultati quanto quelle che non raggiungono gli obiettivi sperati riscontrano miglioramenti azionari, e ciò per motivi macro economici di scenario esterno, quindi al di fuori di qualsiasi controllo manageriale. Robert Boyer, su Competition & Change del marzo 2005 va ancora più in là: le politiche retributive basate sulle stock option, nate per piegare i manager al volere degli azionisti che chiedevano una sempre più rapida remunerazione degli investimenti, sono ormai alle corde. I Ceo, infatti, grazie a una spregiudicata alleanza con il mondo della finanza, hanno capito come far crescere il valore delle azioni senza necessariamente migliorare le performance aziendali. Basta ad esempio ricorrere a fusioni e acquisizioni di altre aziende, magari con associati licenziamenti di massa, per ottenere lauti guadagni in borsa e quindi sulle opzioni detenute. In più, se si incrementa la dimensione aziendale, di solito cresce anche la retribuzione dei manager.

Cambiare la situazione è però possibile. Anzitutto bisogna contenere l’opportunismo dei top manager richiamando l’impresa, tramite il controllo pubblico sui bilanci, a comportamenti responsabili. Ciò significa, in sintesi, passare dai bilanci tradizionali alla preparazione e diffusione obbligatoria dei bilanci etici, traslando dal controllo degli shareholder a quello degli stakeholder: azionisti, lavoratori, comunità locale. In tale contesto le compensazioni milionarie per i manager avrebbero scarsa possibilità di esistere. Inoltre bisogna passare dalla retribuzione legata agli andamenti aziendali a breve a quella a medio termine: tramite la leva fiscale è tutto sommato semplice premiare i manager che garantiscono aumenti duraturi del patrimonio aziendale. In tal modo, peraltro, si applicherebbe loro la stessa regola invocata da chi vuole che ogni aumento retributivo sia legato a un aumento della produttività.

17/10/2008 19:06

mercoledì, ottobre 01, 2008

Oltre il fannullonismo.
Quale innovazione per la Pubblica Amministrazione italiana?
di Patrizio Di Nicola e Marta Trotta



1.
Il dibattito politico che dall’inizio dell’estate è stato ospitato dalle testate giornalistiche si è occupato, con connotati accesi e a volte semplicistici, di quella che è stata definita lotta contro i fannulloni. Sottolineare la scarsa efficienza delle strutture e dei dipendenti pubblici da parte di Ministri ed addetti ai lavori non è un esercizio originale: solo per citare un autorevole precedente, nel marzo 1994, l’allora ministro della Funzione Pubblica, Sabino Cassese, puntò l’indice contro la scarsa produttività della pubblica amministrazione, chiedendo a tutti i dirigenti degli Enti pubblici di misurare in maniera scientifica i carichi di lavoro (pratiche svolte, lettere recapitate, degenti operati, ecc) al fine di scovare le sacche di inefficienza.
Sappiamo come finì: in nessuna PA misurata esistevano eccedenze di personale, semmai vi era una discreta carenza, reale o presunta non è ancora chiaro. La tematica del fannullonismo è stata avanzata anche dall’attuale opposizione: il giurista Pietro Ichino, nel 2006, ha pubblicato un volume dal titolo chiaro, “I nullafacenti”. Di conseguenza, appena eletto al Senato nelle file del PD, ha presentato una proposta di legge intesa a valutare l'efficienza e il rendimento delle strutture pubbliche e dei loro dipendenti. Proposta co-firmata da un discreto numero di ex sindacalisti.
Nulla di nuovo sotto il sole, quindi: la questione del buon funzionamento dell’amministrazione pubblica non è né di destra né di sinistra. Il vero problema è capire come potrà avvenire una tale evoluzione, e perché sia tanto difficile da ottenere. Ciò richiede qualche riflessione sul tema della modernizzazione della pubblica amministrazione, in generale, e sul cambiamento organizzativo, in particolare.

2.
Anzitutto qualche spunto di carattere storico: il modello organizzativo dal quale trovano ispirazione tutte le pubbliche amministrazioni europee è quello dell’apparato burocratico pensato da Max Weber nel 1922. Per tale autore, all’interno di una organizzazione, sono le norme che regolano il tipo di relazione sociale e l’agire amministrativo è governato dal potere legale: è sull’equità della legge che si reggono i principi universalità dei servizi erogati dallo Stato alla collettività. La quale, a quei tempi era caratterizzata da popolazioni relativamente omogenee, composte da gruppi o classi di persone che esprimevano una domanda sociale semplice e identificabile.
Le ragioni della crescente inadeguatezza dei modelli organizzativi ispirati alle logiche weberiane hanno una duplice origine. Innanzitutto, il contesto è profondamente mutato: la pubblica amministrazione è chiamata da un lato a soddisfare bisogni sociali fortemente differenziati all’interno di un sistema globale in cui gli Stati nazionali perdono centralità, dall’altra deve operare in regime di economicità e recupero di risorse. Inoltre, la presunta razionalità burocratica ha generato non pochi effetti perversi, segnalati dal sociologo americano Robert Merton sin dagli anni Cinquanta: l’attitudine a spersonalizzare il più possibile il rapporto tra burocrati e cittadini, che stride con la crescente richiesta di care personalizzato; l’iperspecializzazione e la propensione alla dilatazione organizzativa intesa a rispondere alle nuove esigenze con norme e strutture ad hoc, ma anche ad auto conservarsi; l’incapacità di adattarsi al nuovo, basando i propri comportamenti su un ritualismo esasperato.

3.
Per superare tale situazione, a partire dalla fine degli anni Ottanta, sono state elaborate possibili traiettorie di Riforma per cercare di rendere compatibile ciò che sembrava incompatibile: ridurre i costi, da un lato, e migliorare la qualità dei servizi e l’efficienza del lavoro dei dipendenti pubblici, dall’altro. Si è cercato, in sintesi, di creare un modello organizzativo post-burocratico. Di fatto le traiettorie che hanno guidato i vari progetti di riforma, si sono mosse lungo due diverse coordinate: da una parte una proposta managerial-aziendalista, dall’altro un approccio che possiamo definire di governance.
Il primo propone di trasferire, spesso sic et simpliciter, strumenti, tecniche e linguaggi propri del mondo delle imprese nella pubblica amministrazione. Partendo dalla considerazione di una presunta superiorità del privato sul pubblico, al management vengono presentati nuovi modelli organizzativi e metodi di gestione prescrittivi come una vera e propria “ricetta pronta per l’uso” che permette, “chiavi in mano”, di rendere più efficienti i servizi pubblici e le strutture che li erogano. Il modello imprenditoriale auspica il ricorso ad agenti e fornitori esterni, l’incentivazione di rapporti concorrenziali e di modelli di gestione del personale finalizzati alla maggiore responsabilizzazione verso un utente-cittadino che si sta trasformando in “cliente”. Questo approccio, nato all’interno della business administration statunitense, anche attraverso il supporto di grandi società di consulenza, propone ai decisori pubblici e ai dirigenti soluzioni semi-standardizzate, non tenendo necessariamente conto delle peculiarità nazionali e delle singole amministrazioni. La linea riformista managerial-aziendalista , in definitiva, rischia di mettere in secondo piano o, meglio, di non valorizzare il carattere pubblico della stessa amministrazione, non riuscendo a soddisfare in tal modo il rinnovato bisogno di coesione sociale delle società contemporanee.
Il secondo approccio, quello della governance, è partito dai Paesi scandinavi, i quali hanno scelto traiettorie di riforma che valorizzassero la partecipazione dei cittadini all’erogazione dei servizi con il fine di governare la complessità sociale in un’ottica di rete, con un maggior grado di interazione non solo tra gli stakeholder politici e amministrativi ma anche quelli economici e sociali. Questa proposta guarda all’esterno dell’organizzazione, all’intera società, mettendo al centro la necessità di governare coinvolgendo i diversi stakeholder sociali. Tuttavia il cammino verso la partecipazione è caratterizzato da luci e ombre e da esperienze frammentate e con esiti incerti.
All’interno di queste diversi approcci, non privi di ambiguità e contraddizioni, le scelte fatte in Italia durante il processo di riforma degli anni Novanta (e ancora in corso) la collocano in una posizione di mezzo: da un lato si è cercato di operare in un’ottica efficientistica, mutuando sistemi di controllo e pianificazione dal privato, dall’altro si è operato in un’ottica di efficacia introducendo leggi per la trasparenza amministrativa e la partecipazione dei diversi soggetti alla vita delle amministrazioni (diritto di accesso, bilancio sociale, Conferenza dei servizi, etc.).

4.
Vari ostacoli si sono eretti davanti ai progetti di modernizzazione della PA. Il sistema politico italiano, caratterizzato per lungo tempo dall’assenza di stabilità, ha comportato una debolezza dei governi di progettare e realizzare riforme di ampio respiro. Non è un caso che in Italia il processo di modernizzazione della pubblica amministrazione è stato attivato con ritardo rispetto agli altri paesi europei, e avviato non solo dalla necessità di rispondere a vincoli comunitari, ma anche dalla vicenda di “Mani pulite” che, evidenziando la crisi di legittimità di vari attori politici, ha favorito la costituzione di governi di transizione tecnici che avevano il compito di riscrivere le regole del gioco. Accanto alle peculiarità del sistema politico, va anche ricordato che le caratteristiche del sistema di rappresentazione e di intermediazione degli interessi, non hanno favorito l’introduzione di modalità organizzative nuove. Le timide esperienze nella PA di sistemi premianti che legassero le retribuzione alle prestazioni si sono risolte, complici tutte le parti in causa, in metodi di incentivazione rigorosamente “a pioggia”, equamente distribuiti in base sulla posizione normativa e sulla mera presenza in ufficio. Ciò ha reso impossibile la nascita di figure professionali e ruoli che attraversassero il processo organizzativo e favorissero la flessibilità dell’intera organizzazione. L’ultimo ostacolo che vale la pena di prendere in considerazione è rappresento dalla radicata cultura dell’agire per «atti amministrativi», fortemente legalista e garantista che ostacola il cambiare in modo snello e veloce le regole del gioco. Il formarsi di questa cultura, per Gherardi e Mortara, deriva dal fatto che i ruoli amministrativi con profili e carriere costruite essenzialmente su competenze giuridiche continuano a prevalere rispetto alle deboli burocrazie tecniche caratterizzate da competenze professionali differenziate e più adatte, per formazione e sensibilità, a recepire i segnali di cambiamento.


5.
Le considerazioni svolte ci portano a riflettere sulla scarsa linearità della questione del cambiamento organizzativo. I dipendenti pubblici sono solo una parte del “rompicapo” rappresentato dalla modernizzazione della pubblica amministrazione, che opera, serve ricordarlo, in un campo ove il prodotto è un servizio sociale spesso di prima necessità (la salute, la sicurezza, l’istruzione) e il cliente è in realtà il cittadino con i suoi bisogni. La riflessione sul processo di riforma per avere successo deve andare al di là della facile individuazione di “capri espiatori”, siano essi individuati nei “dipendenti fannulloni”, nei manager incompetenti, nei sindacati troppo invadenti. Esistono variabili strutturali, come il gigantismo organizzativo e l’egualitarismo posizionale, che conducono alla spersonalizzazione della prestazione lavorativa, ad uno scarso coordinamento gestionale e ad una diffusa sensazione di fare parte di un meccanismo che non genera partecipazione e soddisfazione nel lavoro. In tal senso, le polemiche fannulloniste, anziché migliorare il funzionamento della burocrazia, potrebbero aggravare il distacco tra pubblica amministrazione e cittadini.
Un reale cambiamento ha luogo solamente se ci sono gli attori interessati a produrlo e a realizzarlo lungo tutto il processo della sua implementazione. Seguendo il pensiero dello psicologo sociale Kurt Lewin, potremmo dire, in una visione semplificata quanto incisiva, che per realizzarsi, il cambiamento organizzativo dovrebbe attraversare una serie di fasi:
- lo “scongelamento” delle culture dell’organizzazione, al fine di individuarne i valori portanti della Riforma e diffusi tra le persone che operano nella PA;
- la “trasformazione”, cioè il processo di ristrutturazione cognitiva, che deve avvenire perché l’organizzazione cambi. Si tratta, in pratica, di offrire a tutte le parti in causa (dipendenti, sindacato, dirigenza) ruoli, esempi di comportamenti e modelli che permettano alle persone l’attivazione di un processo di creazione di senso che conduca a un cambiamento radicale;
- il “ricongelamento”, cioè la stabilizzazione ed istituzionalizzazione di nuovi metodi di comportamento alternativi ai precedenti che costituiscono i nuovi punti di equilibrio.

Ne discende che è necessario costruire sia un progetto di riforma chiaro e organico che cerchi di individuare non solo gli obiettivi da raggiungere ma anche gli strumenti per attivare processi virtuosi. In tal senso quindi la questione non è solo dove si deve arrivare, ma anche come ci si deve arrivare, ricordandosi che non esistono necessariamente legami causali tra il progetto giuridico e i conseguenti comportamenti delle persone che nell’organizzazione operano.
Come ci ha insegnato Crozier, il grande studioso che ha riformato la pubblica amministrazione francese negli anni Sessanta, “l’uomo non e’ soltanto un braccio e non e’ soltanto un cuore. L’uomo e’ una mente, un progetto, una libertà”. Parlava, ovviamente, dei dipendenti pubblici.

venerdì, settembre 12, 2008

Questi computer…

Vi era un tempo in cui i computer si acquistavano per fare una sola cosa, ben precisa. L’IBM 360, ad esempio, immesso sul mercato nell’aprile del 1964, occupava con qualche periferica un mezzo appartamento, ed era perfetto, con i suoi 4 Kbyte di memoria di base, per gestire dati amministrativi (ad esempio stampare le buste paga di un’intera azienda), o per fare calcoli scientifici. Una volta acquistato, poteva lavorare per anni, tanto è vero che la casa produttrice lo mise fuori produzione dopo 13 anni di servizio. Io oggi ho a casa due portatili, con una Ram di almeno un milione di volte superiore al vecchio 360, peso e ingombri decisamente inferiori, e con tante di quelle applicazioni che posso farci di tutto, almeno in teoria. I due portatili, acquistati di recente, sono alimentati da sistemi operativi completamente diversi: l’uno ha l’ultima versione di un programma che si chiama (traduzione italiana) “Finestre” ed è prodotto da una gigantesca azienda il cui fondatore si chiama, sempre all’italiana, “Cancelli”. L’altro invece viene da una azienda che ha come logo una mela rosicchiata, e si chiama semplicemente “X” (che starebbe per 10, ma nel frattempo è arrivato alla versione 5). Bene, far funzionare questi due portatili è diventato il mio principale lavoro. Ci passo sopra almeno un paio di giorni a settimana, ritardando la consegna di libri, articoli e la lettura delle tesi dei miei studenti. Ma io sono tosto di carattere, non posso accettare che i miei PC mi sbeffeggino. Se decido di usarne uno come lettore di DVD durante il viaggio tra Roma e Milano, scopro che i film vanno a scatti, e devo perdere ore per aggiornare tutti i programmi coinvolti (forse conveniva comprarsi un lettore portatile). Se voglio utilizzare l’altro per scambiare i dati con il mio palmare, scopro che essendo quest’ultimo troppo nuovo, non viene riconosciuto e quindi non funziona. La prossima volta mi premurerò di comprarlo usato di due anni… Naturalmente anche in tal caso esisterebbe la possibilità di aggiornare tutto. Ma forse intanto conviene tirare fuori dall’armadio il vecchio PC, che oggi mi sembra funzionare tanto bene… In definitiva una cosa la ho capita: le nuove tecnologie è preferibile acquistarle quando sono diventate un po’ vecchiotte. Come gli umani, i chip con l’età diventano meno stupefacenti, ma molto più rispettosi.

sabato, luglio 12, 2008

Record olimpici e scarpette miracolose


Tra poco inizieranno le olimpiadi cinesi. Nonostante le molte proteste per il Tibet e i diritti umani negati, c’e’ da scommetterci che i grandi del mondo saranno tutti li, a dimostrare che forse tanto grandi non sono se debbono correre ad inchinarsi all’altare del potente partner commerciale orientale. Anche noi, come miliardi di persone, saremo davanti alla TV (o forse a You Tube, che a differenze delle trasmissioni via etere è difficilmente censurabile) con l’idea di goderci lo sport. Che male c’e’? Vedremo atleti provenienti da tutto il mondo, senza differenza di razza, continente, sesso o età, che faranno del loro meglio per correre più veloce dell’altro. Qualche commentatore ci ricorderà quanta tecnologia si nasconde dietro le loro scarpette di gomma o le magliette di nylon: è anche grazie all’abbigliamento che riusciranno a migliorare qualche record. Allora ci ricorderemo, spero, che come denunciato in tutto il mondo dalla campagna PlayFair 2008, dietro all’abbigliamento sportivo che rende ricche e potenti le multinazionali del settore vi è la fatica, in condizioni semischiavistiche, di centinaia di migliaia di lavoratori in Cina, India, Cambogia. La Adidas ha sponsorizzato per 100 milioni di dollari le Olimpiadi, ma nessuno dei suoi operai sarà alla cerimonia iniziale, in quanto quel costo nessun lavoratore cinese se lo puo’ permettere. La Cina è la nuova mecca dei produttori di articoli sportivi, e non solo per il costo del lavoro. Nel grande paese comunista i sindacati sono considerati legali solo se affiliati alla Federazione nazionale cinese dei sindacati (ACFTU), la quale è controllata dal governo. Gli scioperi sono quasi sempre repressi, in quanto considerati una minaccia per l’ordine pubblico secondo una norma del 1982. Nelle fabbriche sindacalizzate i lavoratori sono rappresentati da funzionari non eletti, ma spesso scelti tra i dirigenti dell’impresa stessa. Inutile dire che questi sindacalisti si danno ben poco da fare per migliorare le condizioni di lavoro o i diritti dei lavoratori. Ma ben altre storie dell’orrore si trovano nel report scaricabile da www.abitipuliti.org. E pensare che nell’antica Grecia gli atleti olimpici si esibivano nudi. Forse se tornassimo alle origini ne guadagneremmo in molti modi.

lunedì, giugno 30, 2008

LA FORMAZIONE DEI GIOVANI ITALIANI ALL’ESTERO E L’UNIVERSITà



1.
Che tra le leve strategiche per la competitività di una nazione vi sia la formazione è ormai cosa nota. E’ infatti dimostrata l’esistenza di un legame strettissimo tra gli investimenti nelle risorse umane e la crescita della produttività del lavoro e del benessere economico. Il legame fra formazione e produttività è amplificato dalle trasformazioni politiche ed economiche avvenute su scala planetaria, i quali a loro volta hanno un impatto immediato sui modelli e sui sistemi di formazione. Non è un caso che Paesi quali Singapore, la Repubblica di Corea, l’India, che hanno dato vita al cosiddetto “miracolo asiatico”, lo abbiano fatto anche attraverso un costante investimento competitivo sulla formazione e l’educazione.
Le aziende hanno reagito velocemente, seppur in maniera un po’ scomposta, alla disponibilità e alla crucialità di personale sempre più qualificato, innescando quella che è stata chiamata “guerra dei talenti”: nella ricerca spasmodica di persone sempre più istruite, hanno considerato il talento un bene scarso, da accaparrare a qualsiasi costo.
Tali trasformazioni hanno creato forti tensioni all’interno dei sistemi formativi. Anzitutto sono emersi, anche sull’onda della cosiddetta Net Economy, alcuni poli di eccellenza: non è un caso che gli enfants prodige della Silicon Valley, malgrado le leggende in circolazione su garage paterni in cui si sperimentavano idee folli, vengono tutti dalle università dell’Ivy League: Columbia, Princeton, Yale, e poche altre.
In queste università, è venuto meno il modello tradizionale di formazione che attribuiva all’insegnante e all’organizzazione universitaria la completa responsabilità delle decisioni riguardanti l’oggetto, le finalità, le modalità e i tempi dell’apprendimento, lasciando allo studente un ruolo assolutamente subordinato e marginale, consistente nel seguire le istruzioni dell’insegnante. Nella fase attuale, viceversa, il “potere” nel processo formativo si sposta verso i discenti. E’ in forte crescita la capacità delle persone di essere autonome, il che comporta una maggiore partecipazione e personalizzazione del progetto di apprendimento. Studiare oggi significa attivare una ricerca in cui la persona mira a qualcosa di nuovo, in cui il docente assume il ruolo di mediatore interculturale, e il ruolo organizzato delle istituzioni è sempre meno direttivo.

2.
In tale contesto fortemente complessificato si iscrive il capitolo della formazione degli Italiani all’estero. Essa, spesso, viene perseguita dalle autorità italiane secondo un modello ipertradizionale di “supporto all’occupazione”, nel paese di residenza, ovvero in caso di rientro in patria. Si da quindi per scontato che l’Italiano all’estero sia un soggetto da addestrare all’uso di particolari macchinari, ovvero da orientare al fine di permettergli di trovare un lavoro, al quale va fornita soprattutto una professione, a volte “old economy”. Si tratta di una visione che manca di una seppur minima ambizione strategica.
Oggi la fuoriuscita di italiani dai confini, specialmente quella verso gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia, assume le caratteristiche prevalentemente di un’emigrazione intellettuale: temporanea, come avviene nel caso degli studenti che si recano all’estero per seguire corsi di specializzazione universitari, o per i dipendenti delle aziende multinazionali, ma che può in diversi casi divenire permanente, tanto che si parla con sempre più insistenza di «fuga dei cervelli».
Basti qualche numero per rendersi conto del fenomeno dell’attrattività di alcuni milieu americani: alla data del 15 gennaio 2008, negli Usa risiedevano 979 mila stranieri con un visto di studio. Oltre 110 mila erano in una Università Californiana, 85 mila a New York, e 113 mila studiano in un programma di dottorato di ricerca post laurea. Ma possiamo leggere la fuga dei cervelli anche da un altro versante, tutto interno alla Comunità Europea. Questa la storia: recentemente si sono concluse le valutazioni per l’assegnazione dei fondi a giovani ricercatori da parte del Consiglio Europeo delle Ricerche. Si tratta di un fondo assegnato a progetti sulla base del solo merito scientifico, una vera rarità per alcuni versi. I vincitori, circa 300 in tutta Europa, possono decidere in quali Nazioni “spendere” il loro assegno di ricerca. Scelta, ovviamente, che dipende dalla fama delle Università e dalle attrezzature che verranno messe a disposizione dei ricercatori. Ebbene, gli italiani che hanno concorso alla borsa di studio sono stati oltre 1600 (a fronte di 600 domande dalla Francia, ad esempio), a riprova che per un giovane ricercatore in patria c’e’ pochissimo spazio per lavorare. I vincitori italiani sono stati 35 (non male, se comparati ai 32 francesi o 30 inglesi). Purtroppo, di questi, solo 22 hanno scelto di rimanere in Italia; 13 andranno in altre Nazioni, mentre dall’estero ne arriveranno solo tre. Se guardiamo al Regno Unito capiamo cosa significa essere competitivi in questo settore: dei 30 ricercatori inglesi, 24 restano li, e ad essi si aggiungono ben 34 studiosi di altri Paesi (tra cui 6 nostri) che hanno scelto di trasferirsi in una università della Gran Bretagna. E più o meno lo stesso accade in Francia. Per noi, una occasione persa.

3.
Oggi, una nazione come l’Italia che volesse spendere bene i fondi per la formazione dei compatrioti all’estero non ha altra scelta che concentrare tutte le risorse possibili al fine di costruire un progetto di valorizzazione dei nostri “cervelli all’estero”. A poco vale la velleitaria idea di “far rientrare i cervelli”, almeno in assenza di una nuova politica nazionale per la ricerca scientifica di ampio respiro (ad esempio su 25 anni). Chi se ne è andato nella stragrande maggioranza dei casi lo ha fatto per necessità. Come notava ben cinque anni fa Claudia Di Giorgio, gli scienziati italiani "non sono partiti come liberi viaggiatori del mondo, non si sono globalizzati: è stata la mancanza di opportunità a farli andare via. Sono stati esportati. E il ritmo di questa esportazione si va facendo progressivamente più accelerato, via via che i ripetuti blocchi di assunzioni e i continui tagli finanziari - e le politiche baronali nell'Università - rendono sempre più improbabile ottenere posizioni permanenti nelle Università e negli enti di ricerca" . A queste persone, almeno nella loro fase iniziale della carriera all’estero, è possibile erogare moduli formativi intesi a renderli ricettivi nei confronti delle occasioni che l’Italia può offrire loro, pur rimanendo all’estero. Essi possono costituire una testa di ponte, nei paesi dove risiedono, per le imprese italiane, al fine di conoscere meglio i mercati e penetrarli con maggiore sicurezza. E ciò si applica non solo al sistema economico, ma anche alla cultura con annessi e connessi.
Sono richiesti, quindi, progetti formativi bidirezionali, in modo che i cittadini italiani all’estero conoscano meglio le occasioni offerte dal nostro sistema Paese (sempre che sia possibile spiegarlo), e le organizzazioni italiane capiscano la potenzialità dei nostri cervelli all’estero. Altrimenti, le poche risorse che abbiamo verranno sprecate.

giovedì, giugno 12, 2008

Quando la meraviglia finisce
Di Patrizio Di Nicola

Vi sono delle regole di bon ton che sconsigliano vivamente di parlare male dell’e-government e di chi lo attua. E’ giusto, viste le diffidenze che devono superare. Ma a volte la buone educazione rischia di diventare omertosa. Per questo è utile segnalare le false innovazioni che ci vengono a volte dal mondo dell’e-government. Un esempio per capirci meglio. Qualche giorno fa, un portale informativo dava con risalto la notizia che una ASL abruzzese, tra le poche in Italia, avrebbe iniziato a trasmettere via Internet all'Inail le denunce di infortuni sul lavoro. Niente carta, zero burocrazia, invio dei dati in tempo reale: vantaggi permessi dalle nuove tecnologie del Web, spiegano i responsabili del progetto. Certo, un bel vantaggio, ma cosa c’entra il governo online? Esiste, dagli albori di Internet, una tecnologia molto semplice, l’email, che permette a chiunque di inviare documenti, testi, immagini e quant’altro ci possa venire in mente, in una frazione di secondo e a costi praticante nulli. Forse gli strateghi dell’e-government si sono distratti, ma nell’autunno del 1971 Raymond Tomlinson inviò su ARPANet - la rete militare da cui deriva Internet, la prima email della storia; a lui, tra l’altro, si deve anche l'idea di usare il simbolo "@" per dividere il nome dell’utente da quello del server . Da allora moltissima acqua è passata sotto i ponti, e le email spedite ogni giorno sono circa 31 miliardi. Allora perché le nostre amministrazioni pubbliche non le usano abitualmente, per i lavori di tutti i giorni? Perché, anziché utilizzare la tecnologia più semplice che si ha a disposizione si preferisce creare costosi portali pseudo interattivi, che per un verso o per l’altro, quasi sempre funzionano male? Io, sinceramente, inizio a stancarmi di questa economia dello spreco di risorse pubbliche che ruota attorno ad Internet. Vorrei, cortesemente, tornare alle origini: datemi l’indirizzo di posta elettronica del funzionario che ha in mano la mia pratica, e fate solo in modo che possa rispondermi in breve tempo. E che i file i ministeri se li scambino con belle email, proprio come facciamo noi ogni giorno.
Redditi online

Di Patrizio Di Nicola

I redditi degli italiani, ma soprattutto i funzionari che li custodiscono, hanno fatto la conoscenza di internet. Giusta o sbagliata che sia stata la decisione, qualcuno, dagli uffici del ministero dell’Economia, ha creato un file con tutti i dati degli italiani e lo ha pubblicati sul sito web del ministero. Sin qui nulla di anomalo (o forse tutto sbagliato, dipende da come la pensate: i punti di vista, almeno tra gli utenti, sono differenti). Quel che invece stupisce è la profonda ignoranza circa i meccanismi che regolano - o non regolano, è meglio dire - Internet. Infatti, chiunque abbia cercato di scaricare il file direttamente dal sito del ministero, si è subito reso conto che la larghezza di banda (cioè la capacita’ di trasmissione del web del governo) era assolutamente insufficiente a soddisfare le richieste di tutti gli utenti. Così, qualcuno di buona volontà o forse particolarmente malizioso, una volta riuscito a trasferire nel proprio computer il file, lo ha messo in condivisione tramite una rete peer-to-peer, quelle che si pensa servano soltanto a scambiarsi illegalmente musica e film. Il risultato è stato di moltiplicare per mille o più le fonti da cui poteva avvenire il download. Da quel momento in poi la circolazione delle informazioni è diventata un fiume in piena. La decisione, presa dopo qualche giorno, di ritirare le informazioni dal sito dell’Agenzia delle Entrate, non tocca minimamente i dati in circolazione tramite le reti E-Mule e simili. E l’avere reso illegale la circolazione incontrollata dei dati, se riesce a bloccare i tentativi di speculazione più sfacciati (e-Bay, il sito di vendita online tra privati, ha sospeso le aste avente per oggetto i redditi) poco o nulla può fare contro i file condivisi tramite la memoria dei PC di singoli utenti.
Questa storia ci auguriamo serva a richiamare l’attenzione sulle enormi possibilità di Internet. Chi pensa che tutto inizi e finisca con i siti web o con i grandi portali informativi sottovaluta la rete, che sempre di più vive davvero nei processi di condivisione delle conoscenze tra singoli utenti, senza divieti né garanti che tengano.
E-Government e clientele

Di Patrizio Di Nicola

C’è qualcosa che non funziona nell’E-Government italiano. Infatti, da una parte le pubbliche amministrazioni non fanno passare settimana senza annunciare nuovi progetti, presentare entusiasti rendiconti di quanto fatto nei mesi precedenti, o comparando gli sviluppi italiani con quelli comunitari, sostenendo ovviamente che l’Italia è all’avanguardia nei servizi telematici al cittadino. Dall’altra parte, invece, le industrie del settore esprimono pareri molto più cauti se non addirittura negativi. Così, leggendo l’ultimo rapporto Assinform sulle ICT, scopriamo che in Italia crescono molto i digital users, persone che utilizzano in modo innovativo le tecnologie, ma le aziende e le pubbliche amministrazioni non sono abbastanza svelte nel fornire loro i servizi di cui hanno necessità. Ci troviamo di fronte a un profondo deficit di innovazione, che colpisce tutti i settori, pubblici e privati. Ma la PA soffre di un paio di malanni aggiuntivi: anzitutto ha molto investito in tecnologie di front office, senza curarsi troppo di aumentare l’efficienza del back office. Questo ha comportato, di fatto, una scarsa interattività dei servizi, con la conseguenza che da noi solo il 16% dei cittadini utilizza i siti della PA, contro il 25% della Spagna, il 32% della Germania e oltre il 50% dei paesi scandinavi. Più grave ancora è il fatto che l’E-Government assomiglia a un gigantesco sistema che la PA usa per finanziare sé stessa: secondo lo studio Assinform, nel 2007 il 50% della spesa in tecnologie e’ finito, spesso senza gare, nella casse delle aziende in house di Comuni, Province, Regioni e Ministeri. E’ evidente che, in tale contesto non conti molto la qualità e l’innovatività di quello che si realizza grazie alle nuove tecnologie, ma l’occupazione che si crea nell’indotto pubblico.
A riprova di quanto detto una esperienza personale: qualche mese fa chi scrive ha inviato, a oltre 100 Comuni laziali, una lettera per presentare un progetto inteso a realizzare forme innovative di telelavoro per il miglioramento dei servizi ai cittadini. Riuscite ad immaginare quanti hanno risposto, se non altro per saperne di più? Si, la risposta la conoscete: nessuno.

sabato, marzo 15, 2008

Fatti dalla flessibilità del lavoro 3: la flessibilita’ nel mondo della ricerca

Patrizio Di Nicola.

L'università italiana allo stato attuale occupa oltre 65000 lavoratori precari che svolgono attività didattica e di ricerca (nello specifico si tratta di più di 17000 tra titolari di borse post-dottorato, titolari di assegni di ricerca, e varie forme di contratti di prestazione autonoma parasubordinata, e di più di 48000 tra professori a contratto titolari di insegnamenti e/o di attività didattiche integrative).

65000 precari di cui 17000 assegnisti e cococo + 48 000 docenti a contratto

A fronte di questo numero esorbitante di precari, che di fatto contribuiscono in maniera incisiva a sostenere e mandare avanti il sistema universitario, i lavoratori stabili, cioè strutturati e a tempo indeterminato, sono poco più di 60000 (tra ricercatori, professori associati, e professori ordinari). A tale proposito è opportuno ricordare che la distribuzione di questi strutturati non è piramidale, con una ampia base di ricercatori, un livello intermedio di professori associati, e un numero più limitato di professori ordinari al vertice. La struttura italiana è sostanzialmente "cilindrica", con 22010 ricercatori, 18966 associati, e 19275 ordinari (più degli associati).

60 000 docenti e ricercatori stabili, di cui 22 000 ricercatori, 19 000 associati, 19 000 ordinari
Fatti dalla flessibilità del lavoro 2: Tipi flessibili

Patrizio Di Nicola.

Gli oltre 1,5 milioni di parasubordinati esistenti 2006 sono riconducibili, fondamentalmente, a cinque gruppi, con caratteristiche peculiari che li differenziano nettamente tra loro. In particolare due gruppi possono essere inclusi nella sfera dei lavoratori deboli, che patiscono la cattiva flessibilità del lavoro e il precariato, due in quello dei lavoratori forti, che invece si muovono agevolmente in questo speciale mercato del lavoro. Il rimanente gruppo si colloca in una posizione intermedia tra le due polarità.

In sintesi, i gruppi che emergono dalla cluster analysis sono i seguenti:

Cluster I : I giovani precari
Il primo e più grande cluster, che ammonta al 39,2% dei parasubordinati, è costituito in larga parte da lavoratori con un’unica fonte di reddito (esclusivi per il 77%) e quasi interamente monocommittenti (nel 94% dei casi). Il gruppo è caratterizzato da un’elevatissima presenza di atipici: i collaboratori a progetto sono il 75% del totale (mentre nell’intero universo costituiscono il 52%), con livelli di imponibile inferiori a 5 mila euro annui nel 99% dei casi. L’indice di retribuzione mensile - di circa 500 euro - e i mesi contrattualizzati, inferiori a 6 per oltre il 60% di essi, delineano un profilo di lavoratori deboli con contratti brevi e saltuari. Si tratta di soggetti di giovane età, inferiore a 30 anni (41%), prevalentemente donne (53%). Le ripartizioni geografiche prevalenti risultano il Centro e il Mezzogiorno; i settori di attività caratterizzanti sono quelli dei servizi, dell’istruzione, della sanità


Cluster II : I precari stabili
Anche il secondo cluster, che rappresenta il 21% dei parasubordinati, è costituito in larga parte da lavoratori esclusivi (75% dei casi) e con un solo committente ma tra di essi si colloca anche una percentuale superiore che nella popolazione totale, di pluricommittenti (13,3% vs l’10,7%). Si tratta in larga percentuale di Co.co.pro e assimilati (68,2%) con redditi superiori a quelli del gruppo precedente e compresi tra 5 e 20 mila euro nel 92,3% dei casi. L’indice di retribuzione mensile si colloca tra i 500 e i 1000 euro e si accompagna a contratti più duraturi:da 6 mesi a 1 anno con una prevalenza di questi ultimi (63,2%). Il profilo sembrerebbe quello di lavoratori che seppur deboli hanno comunque contratti più durevoli e dunque con una maggiore copertura temporale nell’occupazione. Si tratta di “giovani adulti” di età inferiore a 40 anni, prevalentemente maschi (51%). La ripartizione geografica in cui lavorano è prevalente è il Centro (32%); i settori di attività caratterizzanti sono quelli dei servizi, dell’informatica e della sanità.

Cluster III: I giovani adulti qualificati tra precariato e flessibilità
Il terzo cluster raggruppa il 16,3% dell’universo e si caratterizza per la presenza di lavoratori atipici (67,9%) ed in particolare di dottorandi e borsisti di ricerca (13% vs 3%), ma anche di Co.co.co della PA, di collaboratori di giornali e di associati in partecipazione. Si tratta di lavoratori molto spesso esclusivi (74,0%), giovani adulti di età compresa tra i 31 e i 40 anni nel 35% dei casi, che svolgono attività commissionate da più datori di lavoro nel 12% dei casi. E’ realistico pensare che tra di essi vi siano in misura maggiore soggetti ad alta qualificazione, sottoposti ai lunghi percorsi di professionalizzazione che allungano i tempi di attesa di un lavoro stabile. L’imponibile, compreso tra i 10 e i 30 mila euro, si coniuga a rapporti di lavoro che coprono l’intero anno nell’85,4% dei casi. Coerentemente l’indice di retribuzione mensile va dai 1000 ai 2000 euro. I settori di attività sono diversificati: il commercio, l’istruzione, la PA, l’informatica, la ricerca. Le ripartizioni geografiche caratterizzanti risultano il Centro (30%) e il Nord-est (23%).

Cluster IV: I flessibili forti
Raggruppa il 16,3% dei parasubordinati ed è costituito per il 67% da Amministratori, sindaci e revisoti di aziende e enti, dunque da lavoratori tipici, di età molto diversificata (da 30 a oltre 65 anni), in prevalenza uomini (76,8% vs 57,3%). Il rapporto con più committenti risulta essere una modalità caratterizzante (12,4%), mentre l’attività svolta come parasubordinati è concorrente con altri redditi nel 42,7% dei casi (vs 28,6% della media). I livelli di imponibile che caratterizzano il gruppo sono medio alti (da 30 a 50 mila euro nel 92,8% del gruppo), tanto che l‘indice di retribuzione mensile supera i 2000 euro e, per il 32,5% di essi , i 3000 euro. Anche la durata contrattuale prefigura un’attività continuativa nel corso dell’anno (12 mesi nell’85% dei casi).
Il settore di attività prevalente, a differenza di quelli dei gruppi precedenti, è il secondario (l’industria nel 30,7% dei casi), anche se una quota considerevole lavora nel commercio (21,9%). La vocazione industrialista di questo gruppo è confermato anche dalla localizzazione geografica: il Nord (ovest ed est) è la ripartizione in cui si localizzano nel 67% dei casi.

Cluster V: I manager flessibili del Nord
E’ il gruppo più piccolo, con solo il 7,2% dei parasubordinati ed è costituito quasi interamente (84,8%) da Amministratori di società di età superiore a 50 anni. Svolgono altre attività lavorative o sono pensionati nel 39,7% dei casi e hanno più di un committente nel 22,6%. Sono caratterizzati da alti livelli di imponibile, che arriva a superare la soglia dei 50 mila euro, e da alti indici di retribuzione mensile che si attesta oltre i 3000 euro per la totalità degli individui del gruppo (99,7%). Anche in questa coorte il settore di attività prevalente è l’industria (41,9%) e il commercio (21,3%) e le ripartizioni geografiche caratterizzanti sono quelle del Nord (75,1%).
Fatti dalla flessibilità del lavoro 1: Focus sui lavoratori parasubordinati

Patrizio Di Nicola.


Dati salienti

I collaboratori attivi INPS nel 2005 erano 1.475.111. Di questi hanno un contratto di collaborazione anche nel 2006 ben 1.050.126 (71,2%). 992.413 (94,5%) hanno un contratto con lo stesso committente, nel 38,4% dei casi con un reddito inferiore all’anno precedente.
In sintesi, i PRECARI sono 858.388 (tutti i lavoratori atipici con un solo committente senza redditi aggiuntivi)



I parasubordinati non sono necessariamente giovani:
Gli iscritti attivi alla Gestione Separata nel 2006 sono 1.528.865, ossia 53.754 soggetti in più del 2005, l’età media è di 40 anni nel 2006 (vs 41 nel 2005), con le donne mediamente di 7 anni più giovani:

La mappa del lavoro parasubordinato
I parasubordinati costituiscono un universo eterogeneo, costituito principalmente da due grandi gruppi professionali che si differenziano sostanzialmente per la condizione reddituale e per la tipologia di lavori svolti. Da una parte abbiamo gli amministratori, i sindaci di società e i partecipanti a commissioni che costituiscono un terzo circa della Gestione Separata (496.324 persone, pari al 32,5%), mentre dall’altra parte abbiamo la galassia dei collaboratori a vario titolo, più gli associati in partecipazione. Questi costituiscono i restanti due terzi della Gestione Separata, in tutto poco più di un milione di persone (1.032.541 per la precisione). Entrambi questi gruppi (il primo più spesso del secondo), integrano a volte i redditi da pensione o da lavoro dipendente tramite lo svolgimento di attività parasubordinate e simili.


Gli “esclusivi” e i “concorrenti”
La distinzione tra concorrenti ed esclusivi si riferisce all’esistenza o meno di un altro reddito oltre quello ottenuto come parasubordinato. È evidente che avere due fonti retributive rappresenta una maggiore sicurezza per i lavoratori; viceversa, ricadere tra gli “esclusivi”, specialmente se i livelli di reddito sono bassi, espone al rischio di precarietà se non di vera e propria povertà.
Esistono significative differenze fra i sessi da questo punto di vista: le donne infatti hanno per l’84,4% dei casi un’unica fonte di reddito, mentre fra gli uomini questa percentuale si ferma a 20 punti in meno (61,7%). Le donne, quindi, appaiono come il gruppo in cui è più consistente il rischio di disporre di un’unica entrata da lavoro parasubordinato. Questo rischio è tanto più concreto se si pensa che, mentre il reddito imponibile medio dichiarato dei lavoratori maschi esclusivi è pari a 18.344 euro/anno, quello delle donne non arriva a 8.700 euro.


Quanto guadagnano
I collaboratori coordinati e continuativi o a progetto, hanno un imponibile medio pari a 8.400 euro circa (rispetto al 2005 l’aumento per questi lavoratori è stato di meno di 6 euro annuali!), mentre 365 mila donne hanno un reddito esclusivo medio di appena 6.173 euro annuali.

Le differenze tra redditi dei maschi e delle femmine si giustificherebbe solo se la quasi totalità delle donne lavorasse part-time al 50% rispetto ai maschi e se questi lavorassero tutti full-time. Ipotesi che pare davvero poco realistica; più verosimilmente esiste una disparità salariale, a parità di tempo lavorato, stimabile in circa il 25-30% fra uomini e donne .


I titolari di Partita IVA
I professionisti che hanno effettuato almeno un versamento all’INPS erano, nel 2005, 222.610 contro 1.475.111 parasubordinati (suddivisi a loro volta in 510.675 tipici e 964.436 atipici). Tra i titolari di Partita IVA le donne sono una minoranza rispetto agli uomini (36% vs 64%,).
I titolari di IVA debbono essere considerati più vicini al gruppo dei lavoratori parasubordinati tipici che non agli atipici. La metà circa effettua dei versamenti che non superano i 2.500 euro annui (57,97% per le Partite IVA, 50,03% per i tipici), poco più del 20% versa contributi compresi tra 2.500 e 5.000 euro (23,75% Partite IVA, 22,2% tipici).


Le aziende che fanno ricorso al lavoro parasubordinato in Italia sono oltre 450 mila. Il 49% di esse ha stipulato, nel 2006, un solo contratto. Esistono per contro 125 aziende che hanno tra 500 e 2000 collaboratori, (116 790 persone, il 6,7% del totale) e 23 che hanno oltre 2000 contratti ciascuna, per un totale di quasi 80 mila persone, il 5% del totale dei parasubordinati.
Censura pre-olimpica
Di Patrizio Di Nicola

Della censura di Internet in Cina ci eravamo già occupati da queste colonne in occasione della condanna a 10 anni del giornalista Shi Tao, che aveva criticato in una email una circolare governativa, ed era stato “beccato” grazie all’aiuto Yahoo. Ora, con l’approssimarsi delle Olimpiadi, gli utenti cinesi di internet vengono messi ancora di piu’ sotto torchio: dopo la chiusura di molti Internet Cafè, in cui peraltro gli utenti sono video controllati, la censura si è estesa ai blog, che vengono visti come una fonte non autorizzata di notizie e, quindi, di possibili critiche verso il regime. Gli infaticabili firewall di stato, che attuano una rigida censura preventiva, impediscono il passaggio di ogni notizia o sito che afferisca ad una qualsiasi delle oltre 30 mila parole chiave vietate. Tra le quali troviamo, oltre alla immancabile “piazza Tienanmen”, anche parole per noi innocue: “diritti civili”, “democrazia”, “sesso”, “religione”. Stretta la cinta in patria, le autorità cinesi hanno però dovuto allentarla per chi arriva da fuori per i giochi olimpici. Ai giornalisti, ma solo se stranieri, è garantita la possibilità di intervistare chiunque senza autorizzazioni preventive del governo, come anche di spostarsi liberamente neul territorio. Agli atleti è concesso di tenere dei propri blog, a patto che questi siano privati, senza sponsor, esclusivamente testuali e si riferiscano a vicende sportive individuali. Ma gli oppositori del regime hanno da tempo iniziato a diffondere le proprie posizioni tramite podcast, cioè con file audio in MP3 che sono molto meno facili da oscurare e arrivano, grazie alle reti peer-to-peer e ai diffusissimi lettori e telefoni cellulari (in Cina ne esistono oltre 400 milioni) anche nelle aree rurali ove il tasso di analfabetismo della popolazione e’ alto. Insomma, ad agosto 2008, nonostante le attenzioni della gerarchia, molti cittadini cinesi scopriranno cose inedite.

domenica, febbraio 03, 2008

Il mondo digitale nei decreti di fine anno
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese

Sono molte le novità che le due più importanti leggi di fine anno portano nel modo di vita digitale. La 247/2007, che ha convertito ufficialmente il Protocollo sul Welfare, rilancia il telelavoro: il comma 37, dedicato al lavoro delle persone con disabilità, prevede che le aziende possano ottenere un rimborso per introdurre il telelavoro. Il comma 81, invece, rafforza l’articolo 9 della legge 53/2000 al fine di potenziare il lavoro a distanza. Non si tratta certo di una novità, in quanto la legge già prevedeva l’uso del telelavoro per aumentare la flessibilità del lavoro e permettere alle donne una migliore conciliazione tra lavoro e famiglia. Ma, come noto, le imprese paiono odiare quelle forme di flessibilità che piacciono ai lavoratori (come appunto il telelavoro), mentre sono diventate espertissime di contratti precari, stage e retribuzioni ridotte (che invece sono amate solo dagli imprenditori).
Ancora più nutrito il “sale” digitale che troviamo nella finanziaria 2008: si va dall’abolizione delle letterine di carta tra le pubbliche amministrazioni (che finalmente, per informarsi, useranno le più economiche email) sino alla migrazione dei sistemi telefonici verso la telefonia VOIP (tipo Skype, per intenderci): Beppe Grillo ne sarà certamente contento, ma chi dovrà assicurare la riservatezza delle comunicazioni molto meno. Un incentivo all’uso della telematica verrà sicuramente dalla riduzione del bollo su domande, denunce e atti presentate da imprese individuali per via telematica all'ufficio del registro (ma perché non da qualsiasi tipo di impresa?). L’art. 1, comma 131, stabilisce che a partire dal 2009 le certificazioni fiscali rilasciate dalle amministrazioni dello Stato ai propri dipendenti, saranno inviate esclusivamente per via telematica all'indirizzo di posta elettronica assegnato a ciascun dipendente. Il che, ovviamente, implica che ogni dipendente abbia un suo indirizzo email, e che soprattutto poi non stampi la certificazione ricevuta tramite le costose stampanti dell’ufficio: altrimenti era preferibile lasciare tutto come prima. Per finire una cattiva notizia: è stato rinviata al 31 dicembre 2008 l'accesso ai servizi erogati in rete dalle pubbliche amministrazioni tramite carta d'identità elettronica. Era scontato, ovviamente: chi di noi ha la carta digitale?
La rivoluzione Open Source

Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese

Come noto il mondo del software oscilla tra il rigido controllo dei copyright e delle licenze d’uso e la libera distribuzione dei codici sorgenti dei programmi. Alfiere della prima posizione è, non a caso, la Microsoft, società che detiene, grazie anche a pratiche commerciali messe in discussione da più parti, il monopolio di fatto sui sistemi operativi per PC. Sull’altro versante si situa il cosiddetto “movimento Open Source”: un enorme numero di programmatori che hanno realizzato un network mondiale per la produzione di software libero: spesso gratuito, ma soprattutto liberamente distribuibile ed utilizzabile. Prodotti di vertice di questa famiglia sono il sistema operativo Linux e la suite di videoscrittura Open Office. Molte nazioni del terzo e quarto mondo hanno deciso di adottare i software liberi da copyright per il loro ridotto costo di gestione, nonché per le poche pretese in termini di hardware: in pratica questi programmi funzionano bene anche su computer di vecchia generazione. La stessa cosa non si può dire dei sistemi operativi della Microsoft, come sa chi ha provato ad installare Vista. Arriva ora la notizia che la British educational IT agency (Becta), ente governativo che ha la missione di rendere disponibile alle scuole le migliori tecnologie informatiche, ha invitato gli istituti scolastici a non siglare contratti di licenza con la Microsoft. La compagnia, accusa Becta, chiede alle scuole una licenza per ogni Pc, a prescindere dall'installazione del proprio software: una forma di tassa sull’acquisto dei computer, insomma. Ma soprattutto, afferma l’agenzia del governo inglese, i sistemi operativi della casa di Redmond creano problemi di interoperabilità per le scuole, gli alunni e le famiglie che desiderano utilizzare alternative a Microsoft Office. L'agenzia ha anche invitato le scuole ad aumentare l’impiego del software open source, stimando che in questo modo si possa risparmiare fino al 50% nella scuola primaria e attorno al 20% nella secondaria. A pensarla così non sono ovviamente solo gli inglesi: in Turchia l'uso del software open source è diventato parte del curriculum scolastico, mentre in Croazia tutti gli insegnanti e gli impiegati statali riceveranno i manuali, anch’essi gratuiti, per imparare ad utilizzare Open Office. E’ la rivoluzione dell’Open Source: vi è chi rifiuta di pagare quello che si può avere liberamente.