lunedì, ottobre 20, 2008

Economia ingiusta
Ponti d’oro al manager che fugge
(articolo pubblicato all'indirizzo
http://www.rassegna.it/articoli/2008/10/17/38192/ponti-doro-al-manager-che-fugge)

Il più pagato nel 2007 lavorava alla Johnson & Johnson, che ebbe la crescita più deludente. Un’ingiustizia da piani alti del capitalismo. E i salari delle persone normali sono sempre più bassi. "Produci di più, guadagni di più": ma non vale per tutti

di Patrizio Di Nicola


Da oltre dieci anni tutti i paesi industrializzati perseguono, a torto o a ragione, una politica di moderazione salariale. Nato dall’esigenza di tenere bassa l’inflazione, il contenimento delle spinte retributive ha trovato giustificazione nella convinzione che gli aumenti in busta paga, se non legati all’incremento di produttività, non avrebbero creato benessere duraturo né per le imprese né per i lavoratori. Così, sia adottando le politiche centralizzate di predeterminazione dei tassi di inflazione, sia tramite operazioni sulla retribuzione oraria minima, ovvero grazie alla contrattazione locale, tutti i paesi sviluppati hanno compresso gli aumenti retributivi.

Qualcosa, però, non ha funzionato: la teoria non prevedeva che i lavoratori si sarebbero impoveriti. Invece così è stato, e in molte parti del mondo il potere d’acquisto dei titolari di redditi fissi si è ridotto considerevolmente. In Italia, ad esempio, negli ultimi 5 anni il calo è stato del 10 per cento; negli Usa ancora di più.

Ma vi è un luogo ove tutto ciò non è avvenuto: si tratta dei piani alti delle aziende, ove vivono i top manager che dirigono le imprese. Per loro, come vedremo, le regole del mercato si applicano in maniera molto discrezionale. Va detto, anzitutto, che è davvero difficile conoscere gli stipendi dei manager, e ciò sia per la naturale riservatezza delle imprese, che troverebbero complesso spiegare alcune retribuzioni “top”, sia per la complessità delle buste paga, che prevedono almeno altre quattro diverse voci oltre la retribuzione: la quota variabile con i risultati, le opzioni azionarie, i benefit e le gratifiche. Ma le voci possono facilmente diventare decine, con alcune indennità erogate nell’anno in corso, altre a distanza di tempo. In tale generalizzata riservatezza, di tanto in tanto si intrufola un giornalista o uno studioso, e svela, tra lo scandalo generale, a quanto ammonta la total compensation dei capi d’azienda.

Negli Usa, secondo Business Week, i Ceo delle 5 maggiori aziende private hanno incassato nel 2007 tra i 16,7 e i 31,9 milioni di dollari. In media il capo azienda di una delle 500 imprese del listino azionistico S&P guadagna in tre ore quanto un dipendente in un anno. In Europa la situazione non sembra molto dissimile (magari è solo un po’ meno nota). Su Fortune International del 7 ottobre 2006, l’esperto Abrahm Lustgarten profila i 25 manager più pagati d’Europa, trovando redditi che vanno da 4,5 ai 32 milioni di dollari, solo in minima parte (tra il 5 e il 20 per cento) erogati in forma di salario. I più pagati sono i manager francesi, ma nell’elenco figurano un po’ tutte le nazionalità. Gli italiani presenti nella golden list erano tre: Marchionne (Fiat), Tronchetti Provera (Telecom), Scaroni (Eni).

Quello che più stupisce, però, non è tanto l’importo delle retribuzioni dei manager, che ad alcuni potrebbe sembrare scandaloso, quanto l’assenza di mercato e di trasparenza nella determinazione delle stesse. Per tornare al caso delle 5 maggiori aziende Usa, ad esempio, il manager più pagato nel 2007 lavorava alla Johnson & Johnson, che in quell’anno ebbe la crescita azionaria più deludente: appena 3,6 per cento se comparata al +24,3 della ExxonMobil, il cui Ceo si è portato a casa “appena” 16,7 milioni di dollari, cioè la metà dell’altro. Un’evidente ingiustizia da piani alti del capitalismo mondiale. Tali disparità sono diffuse in tutta l’economia americana, ove non esiste un valore di riferimento che lega le compensazioni dei manager ai guadagni dell’impresa. Senza citare poi i casi eclatanti, come quelli di presidenti e amministratori che, dopo aver portato le imprese sull’orlo del fallimento, se ne vanno con bonus milionari, essendosi costruiti delle autostrade d’oro per facilitare la fuga dall’impresa in crisi.

Insomma, possiamo definire quella dei top manager una vera e propria giungla retributiva, che si è espansa rapidamente a partire dagli anni Novanta. Secondo John McCall, della Saint Joseph’s University di Philadelphia, in quella decade le retribuzioni dei lavoratori americani sono aumentate mediamente del 37 per cento, mentre quelle dei manager del 571 per cento. Questi ultimi, all’inizio del 1980, avevano una retribuzione circa 40 volte più alta di un lavoratore medio, mentre all’inizio del 2000 il rapporto era passato a 500. Per disegnare una figura semplice, se per i lavoratori dipendenti si fossero applicate le stesse percentuali di aumento, il loro salario ora sarebbe di oltre 120 mila dollari l’anno, non di 24 mila.

Alfred Rappaport, su Harvard Business Review di marzo-aprile 1999, sostiene che, utilizzando gli schemi retributivi convenzionali, spesso i top manager vengono premiati anche quando la loro azienda va male. Nelle fasi di crescita dei mercati, infatti, tanto le imprese che ottengono buoni risultati quanto quelle che non raggiungono gli obiettivi sperati riscontrano miglioramenti azionari, e ciò per motivi macro economici di scenario esterno, quindi al di fuori di qualsiasi controllo manageriale. Robert Boyer, su Competition & Change del marzo 2005 va ancora più in là: le politiche retributive basate sulle stock option, nate per piegare i manager al volere degli azionisti che chiedevano una sempre più rapida remunerazione degli investimenti, sono ormai alle corde. I Ceo, infatti, grazie a una spregiudicata alleanza con il mondo della finanza, hanno capito come far crescere il valore delle azioni senza necessariamente migliorare le performance aziendali. Basta ad esempio ricorrere a fusioni e acquisizioni di altre aziende, magari con associati licenziamenti di massa, per ottenere lauti guadagni in borsa e quindi sulle opzioni detenute. In più, se si incrementa la dimensione aziendale, di solito cresce anche la retribuzione dei manager.

Cambiare la situazione è però possibile. Anzitutto bisogna contenere l’opportunismo dei top manager richiamando l’impresa, tramite il controllo pubblico sui bilanci, a comportamenti responsabili. Ciò significa, in sintesi, passare dai bilanci tradizionali alla preparazione e diffusione obbligatoria dei bilanci etici, traslando dal controllo degli shareholder a quello degli stakeholder: azionisti, lavoratori, comunità locale. In tale contesto le compensazioni milionarie per i manager avrebbero scarsa possibilità di esistere. Inoltre bisogna passare dalla retribuzione legata agli andamenti aziendali a breve a quella a medio termine: tramite la leva fiscale è tutto sommato semplice premiare i manager che garantiscono aumenti duraturi del patrimonio aziendale. In tal modo, peraltro, si applicherebbe loro la stessa regola invocata da chi vuole che ogni aumento retributivo sia legato a un aumento della produttività.

17/10/2008 19:06

mercoledì, ottobre 01, 2008

Oltre il fannullonismo.
Quale innovazione per la Pubblica Amministrazione italiana?
di Patrizio Di Nicola e Marta Trotta



1.
Il dibattito politico che dall’inizio dell’estate è stato ospitato dalle testate giornalistiche si è occupato, con connotati accesi e a volte semplicistici, di quella che è stata definita lotta contro i fannulloni. Sottolineare la scarsa efficienza delle strutture e dei dipendenti pubblici da parte di Ministri ed addetti ai lavori non è un esercizio originale: solo per citare un autorevole precedente, nel marzo 1994, l’allora ministro della Funzione Pubblica, Sabino Cassese, puntò l’indice contro la scarsa produttività della pubblica amministrazione, chiedendo a tutti i dirigenti degli Enti pubblici di misurare in maniera scientifica i carichi di lavoro (pratiche svolte, lettere recapitate, degenti operati, ecc) al fine di scovare le sacche di inefficienza.
Sappiamo come finì: in nessuna PA misurata esistevano eccedenze di personale, semmai vi era una discreta carenza, reale o presunta non è ancora chiaro. La tematica del fannullonismo è stata avanzata anche dall’attuale opposizione: il giurista Pietro Ichino, nel 2006, ha pubblicato un volume dal titolo chiaro, “I nullafacenti”. Di conseguenza, appena eletto al Senato nelle file del PD, ha presentato una proposta di legge intesa a valutare l'efficienza e il rendimento delle strutture pubbliche e dei loro dipendenti. Proposta co-firmata da un discreto numero di ex sindacalisti.
Nulla di nuovo sotto il sole, quindi: la questione del buon funzionamento dell’amministrazione pubblica non è né di destra né di sinistra. Il vero problema è capire come potrà avvenire una tale evoluzione, e perché sia tanto difficile da ottenere. Ciò richiede qualche riflessione sul tema della modernizzazione della pubblica amministrazione, in generale, e sul cambiamento organizzativo, in particolare.

2.
Anzitutto qualche spunto di carattere storico: il modello organizzativo dal quale trovano ispirazione tutte le pubbliche amministrazioni europee è quello dell’apparato burocratico pensato da Max Weber nel 1922. Per tale autore, all’interno di una organizzazione, sono le norme che regolano il tipo di relazione sociale e l’agire amministrativo è governato dal potere legale: è sull’equità della legge che si reggono i principi universalità dei servizi erogati dallo Stato alla collettività. La quale, a quei tempi era caratterizzata da popolazioni relativamente omogenee, composte da gruppi o classi di persone che esprimevano una domanda sociale semplice e identificabile.
Le ragioni della crescente inadeguatezza dei modelli organizzativi ispirati alle logiche weberiane hanno una duplice origine. Innanzitutto, il contesto è profondamente mutato: la pubblica amministrazione è chiamata da un lato a soddisfare bisogni sociali fortemente differenziati all’interno di un sistema globale in cui gli Stati nazionali perdono centralità, dall’altra deve operare in regime di economicità e recupero di risorse. Inoltre, la presunta razionalità burocratica ha generato non pochi effetti perversi, segnalati dal sociologo americano Robert Merton sin dagli anni Cinquanta: l’attitudine a spersonalizzare il più possibile il rapporto tra burocrati e cittadini, che stride con la crescente richiesta di care personalizzato; l’iperspecializzazione e la propensione alla dilatazione organizzativa intesa a rispondere alle nuove esigenze con norme e strutture ad hoc, ma anche ad auto conservarsi; l’incapacità di adattarsi al nuovo, basando i propri comportamenti su un ritualismo esasperato.

3.
Per superare tale situazione, a partire dalla fine degli anni Ottanta, sono state elaborate possibili traiettorie di Riforma per cercare di rendere compatibile ciò che sembrava incompatibile: ridurre i costi, da un lato, e migliorare la qualità dei servizi e l’efficienza del lavoro dei dipendenti pubblici, dall’altro. Si è cercato, in sintesi, di creare un modello organizzativo post-burocratico. Di fatto le traiettorie che hanno guidato i vari progetti di riforma, si sono mosse lungo due diverse coordinate: da una parte una proposta managerial-aziendalista, dall’altro un approccio che possiamo definire di governance.
Il primo propone di trasferire, spesso sic et simpliciter, strumenti, tecniche e linguaggi propri del mondo delle imprese nella pubblica amministrazione. Partendo dalla considerazione di una presunta superiorità del privato sul pubblico, al management vengono presentati nuovi modelli organizzativi e metodi di gestione prescrittivi come una vera e propria “ricetta pronta per l’uso” che permette, “chiavi in mano”, di rendere più efficienti i servizi pubblici e le strutture che li erogano. Il modello imprenditoriale auspica il ricorso ad agenti e fornitori esterni, l’incentivazione di rapporti concorrenziali e di modelli di gestione del personale finalizzati alla maggiore responsabilizzazione verso un utente-cittadino che si sta trasformando in “cliente”. Questo approccio, nato all’interno della business administration statunitense, anche attraverso il supporto di grandi società di consulenza, propone ai decisori pubblici e ai dirigenti soluzioni semi-standardizzate, non tenendo necessariamente conto delle peculiarità nazionali e delle singole amministrazioni. La linea riformista managerial-aziendalista , in definitiva, rischia di mettere in secondo piano o, meglio, di non valorizzare il carattere pubblico della stessa amministrazione, non riuscendo a soddisfare in tal modo il rinnovato bisogno di coesione sociale delle società contemporanee.
Il secondo approccio, quello della governance, è partito dai Paesi scandinavi, i quali hanno scelto traiettorie di riforma che valorizzassero la partecipazione dei cittadini all’erogazione dei servizi con il fine di governare la complessità sociale in un’ottica di rete, con un maggior grado di interazione non solo tra gli stakeholder politici e amministrativi ma anche quelli economici e sociali. Questa proposta guarda all’esterno dell’organizzazione, all’intera società, mettendo al centro la necessità di governare coinvolgendo i diversi stakeholder sociali. Tuttavia il cammino verso la partecipazione è caratterizzato da luci e ombre e da esperienze frammentate e con esiti incerti.
All’interno di queste diversi approcci, non privi di ambiguità e contraddizioni, le scelte fatte in Italia durante il processo di riforma degli anni Novanta (e ancora in corso) la collocano in una posizione di mezzo: da un lato si è cercato di operare in un’ottica efficientistica, mutuando sistemi di controllo e pianificazione dal privato, dall’altro si è operato in un’ottica di efficacia introducendo leggi per la trasparenza amministrativa e la partecipazione dei diversi soggetti alla vita delle amministrazioni (diritto di accesso, bilancio sociale, Conferenza dei servizi, etc.).

4.
Vari ostacoli si sono eretti davanti ai progetti di modernizzazione della PA. Il sistema politico italiano, caratterizzato per lungo tempo dall’assenza di stabilità, ha comportato una debolezza dei governi di progettare e realizzare riforme di ampio respiro. Non è un caso che in Italia il processo di modernizzazione della pubblica amministrazione è stato attivato con ritardo rispetto agli altri paesi europei, e avviato non solo dalla necessità di rispondere a vincoli comunitari, ma anche dalla vicenda di “Mani pulite” che, evidenziando la crisi di legittimità di vari attori politici, ha favorito la costituzione di governi di transizione tecnici che avevano il compito di riscrivere le regole del gioco. Accanto alle peculiarità del sistema politico, va anche ricordato che le caratteristiche del sistema di rappresentazione e di intermediazione degli interessi, non hanno favorito l’introduzione di modalità organizzative nuove. Le timide esperienze nella PA di sistemi premianti che legassero le retribuzione alle prestazioni si sono risolte, complici tutte le parti in causa, in metodi di incentivazione rigorosamente “a pioggia”, equamente distribuiti in base sulla posizione normativa e sulla mera presenza in ufficio. Ciò ha reso impossibile la nascita di figure professionali e ruoli che attraversassero il processo organizzativo e favorissero la flessibilità dell’intera organizzazione. L’ultimo ostacolo che vale la pena di prendere in considerazione è rappresento dalla radicata cultura dell’agire per «atti amministrativi», fortemente legalista e garantista che ostacola il cambiare in modo snello e veloce le regole del gioco. Il formarsi di questa cultura, per Gherardi e Mortara, deriva dal fatto che i ruoli amministrativi con profili e carriere costruite essenzialmente su competenze giuridiche continuano a prevalere rispetto alle deboli burocrazie tecniche caratterizzate da competenze professionali differenziate e più adatte, per formazione e sensibilità, a recepire i segnali di cambiamento.


5.
Le considerazioni svolte ci portano a riflettere sulla scarsa linearità della questione del cambiamento organizzativo. I dipendenti pubblici sono solo una parte del “rompicapo” rappresentato dalla modernizzazione della pubblica amministrazione, che opera, serve ricordarlo, in un campo ove il prodotto è un servizio sociale spesso di prima necessità (la salute, la sicurezza, l’istruzione) e il cliente è in realtà il cittadino con i suoi bisogni. La riflessione sul processo di riforma per avere successo deve andare al di là della facile individuazione di “capri espiatori”, siano essi individuati nei “dipendenti fannulloni”, nei manager incompetenti, nei sindacati troppo invadenti. Esistono variabili strutturali, come il gigantismo organizzativo e l’egualitarismo posizionale, che conducono alla spersonalizzazione della prestazione lavorativa, ad uno scarso coordinamento gestionale e ad una diffusa sensazione di fare parte di un meccanismo che non genera partecipazione e soddisfazione nel lavoro. In tal senso, le polemiche fannulloniste, anziché migliorare il funzionamento della burocrazia, potrebbero aggravare il distacco tra pubblica amministrazione e cittadini.
Un reale cambiamento ha luogo solamente se ci sono gli attori interessati a produrlo e a realizzarlo lungo tutto il processo della sua implementazione. Seguendo il pensiero dello psicologo sociale Kurt Lewin, potremmo dire, in una visione semplificata quanto incisiva, che per realizzarsi, il cambiamento organizzativo dovrebbe attraversare una serie di fasi:
- lo “scongelamento” delle culture dell’organizzazione, al fine di individuarne i valori portanti della Riforma e diffusi tra le persone che operano nella PA;
- la “trasformazione”, cioè il processo di ristrutturazione cognitiva, che deve avvenire perché l’organizzazione cambi. Si tratta, in pratica, di offrire a tutte le parti in causa (dipendenti, sindacato, dirigenza) ruoli, esempi di comportamenti e modelli che permettano alle persone l’attivazione di un processo di creazione di senso che conduca a un cambiamento radicale;
- il “ricongelamento”, cioè la stabilizzazione ed istituzionalizzazione di nuovi metodi di comportamento alternativi ai precedenti che costituiscono i nuovi punti di equilibrio.

Ne discende che è necessario costruire sia un progetto di riforma chiaro e organico che cerchi di individuare non solo gli obiettivi da raggiungere ma anche gli strumenti per attivare processi virtuosi. In tal senso quindi la questione non è solo dove si deve arrivare, ma anche come ci si deve arrivare, ricordandosi che non esistono necessariamente legami causali tra il progetto giuridico e i conseguenti comportamenti delle persone che nell’organizzazione operano.
Come ci ha insegnato Crozier, il grande studioso che ha riformato la pubblica amministrazione francese negli anni Sessanta, “l’uomo non e’ soltanto un braccio e non e’ soltanto un cuore. L’uomo e’ una mente, un progetto, una libertà”. Parlava, ovviamente, dei dipendenti pubblici.