martedì, novembre 11, 2014

Dietro il Job Act, una lotta all’ultimo twitter.

I contrasti sorti tra il maggior sindacato italiano e il presidente del Consiglio Matteo Renzi, seppur siano partiti da fatti molto concreti, quali il futuro dell’articolo 18 e di altri istituti del mercato del lavoro, sono sublimati in breve tempo in una spietata lotta di comunicazione, intesa a screditare e mettere al tappeto l’avversario in modo di azzerare le capacità di reazione dell’altra parte. Questo ci permette, in questo breve scritto, di ragionare – si tratta di poco più di appunti – della forma del conflitto sociale nella società dominata dalle tecnologie della comunicazione.
Iniziamo con il riassumere i fatti: il Governo, appena entrato in carica, propone una serie incrementale di proposte di legge sul lavoro, che devono probabilmente piacere anche a Forza Italia, con la quale a gennaio 2014 è stato siglato un patto sulle riforme istituzionali ed elettorali. Si inizia con il cosiddetto “decreto Poletti”, entrato in vigore nel maggio 2014, che permette di stipulare contratti a termine senza causale, procedendo a sei rinnovi dello stesso sino a un massimo di tre anni. Norma che secondo l’Esecutivo dovrebbe combattere la precarietà e facilitare la stabilizzazione dei lavoratori, ma come notato anche da Tito Boeri, sinora a ben poco è servito, tanto che dopo la sua approvazione è continuato incessante il processo di sostituzione nelle imprese del lavoro stabile con quello precario. Segue, a distanza di poche settimane, il Job Act, molto pubblicizzato dai tempi delle primarie, ma sino a quel momento conosciuto soltanto per poche slide che ne raccontavano i principi ispiratori. Arrivato il testo con qualche difficoltà in Parlamento, si scopre che contiene un nuovo contratto di lavoro “a tutele crescenti” che dovrebbe favorire l’inserimento stabile dei giovani in azienda (ma non parla dei precari attuali, ormai alla soglia dei quarant’anni né abolisce i contratti a termine e le collaborazioni nella pubblica amministrazione) rendendoli liberamente licenziabili per i primi tre anni. Il testo prevede anche l’abolizione delle tutele previste dall’art. 18 che, già attenuato dalla legge Fornero, dovrebbe rimanere – per il momento - solo per i licenziamenti rigettati dal giudice in quanto discriminatori.
Nel lasso di tempo in cui i fatti anzidetti si svolgono prende forma un braccio di ferro comunicativo tra il Governo, che di fatto rifiuta – seppur con alterne vicende - qualsiasi obbligo di informazione e concertazione con le parti sociali (almeno con quelle che rappresentano il lavoro: con gli imprenditori gli incontri sono più frequenti, e si svolgono di preferenza in fabbriche che per l’occasione vengono svuotate dagli operai) ed inizia – utilizzando in particolare Twitter, il sistema di microblog che permette di inviare messaggi aventi lunghezza massima di 140 caratteri - una campagna di comunicazione nei confronti dei sindacati e in particolare della Cgil. Definita, a seconda dei casi, “incapace di difendere i giovani”, “conservatrice”, tanto “vecchia” da non sapere neanche che l’Iphone non si usa con il gettone telefonico. Il messaggio è chiaro: il Job Act (come del resto la Legge di Stabilità) sono innovativi, il Governo non li discute né li negozia con chi non vuole cambiare lo stato delle cose. Si tratta di una strategia che, al di là della Cgil, è intesa a “mettere all’angolo” gli oppositori interni al PD, anche a rischio di scissioni, ritenute improbabili ed eventualmente di limitato impatto. Renzi, come ha osservato acutamente Luciano Gallino, cerca di ripercorrere in Italia la strada battuta 15 anni fa da Blair e Schroeder, che nel 1999 lanciarono un manifesto per una “nuova socialdemocrazia” che portò al forte ridimensionamento dello Stato Sociale in Germania e alla mancata revisione delle politiche thatcheriane in Gran Bretagna. In Germania le leggi di riforma del Mercato del Lavoro generarono 8 milioni di lavori precari e a «basso salario», con paga oraria che va dai 6 euro netti nella Germania ex Ovest ai circa 2 nei Lander dell’Est. Lo stile comunicativo di Renzi è spiazzante per chi è oggetto della sua critica: lo “stile twitter” è fatto di colpetti continui, mai argomentati, che viaggiano sull’onda dell’attualità e della battuta sarcastica. Vediamo qualche esempio di questo meccanismo di comunicazione: non serve dimostrare che il sindacato non tutela bene i giovani, lo si capisce dall’alto numero dei disoccupati e di precari. Che sono ovviamente stati creati da leggi che a partire dal 1996 volevano flessibilizzare il lavoro e invece hanno precarizzato i lavoratori; il sindacato, semmai, ha avuto la colpa di non opporsi di più a quelle che all’epoca erano considerate grandi e positive innovazioni che avrebbero aumentato la competitività dell’Italia. Prendiamo poi il caso della critica sul conservatorismo di coloro a cui non piacciono le riforme proposte da Renzi: con una estrema semplificazione, il ragionamento è che chi innova ha sempre ragione, mentre chi negozia e discute vuole difendere il vecchio. Alla base di questo modo di concepire l’esercizio del potere politico sono straordinariamente identificabili i tre tipi di argomenti che l’economista Albert Hirschman ritiene siano alla base del pensiero conservatore: l’effetto perverso, la futilità e la paura (si veda: A. O.HIRSCHMAN, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio, Bologna, Il Mulino, 1991). L’idea di intervenire contro la precarietà aumentando la licenziabilità dei lavoratori in tal senso sarebbe, per dirla con lo studioso, “il tentativo di spingere la società in una certa direzione” che “avrà per effetto sì un movimento della società, ma nella direzione opposta”. Allo stesso modo, la futilità del ragionamento di chi ha la pretesa di cambiare tutto sfocia solo in un comportamento di facciata, che di fatto lascia le cose come erano prima. Ed è supportato dal terzo argomento, quello per cui chi si oppone al cambiamento ha sempre paura di perdere i privilegi di cui dispone. Se dovessimo credere a Hirschman, insomma, Renzi dovrebbe militare nelle fila dei conservatori più che tra gli innovatori.
La Cgil, come noto, ha risposto al Job Act con una manifestazione nazionale, indetta lo scorso 25 ottobre, che ha portato in piazza un milione di persone scontente delle politiche sul lavoro del Governo. Un numero almeno cinque volte superiore rispetto alla capacità organizzativa del sindacato. E’ stato un colpo duro, anche se mai verrà ammesso, in quanto chi protestava, alle scorse elezioni, aveva votato (e a volte militato) per il partito del Premier. Lo stesso giorno, a marcare la distanza, si svolge a Firenze “La Leopolda”, un incontro a metà tra l’assemblea politica e il seminario di studio, in cui Renzi, in maniche di camicia e circondato da imprenditori e finanzieri, parla ai partecipanti nella scenografia simbolica del garage di casa Jobs, il defunto fondatore della Apple. Stupisce, per un leader reduce da un recente viaggio nella Silicon Valley, la mancanza di riflessione su cosa rappresentino la Apple e gli altri big player dell’economia mondiale: motori di innovazione, ma anche imprese che sfruttano tutte le occasioni per aumentare a dismisura i propri profitti miliardari, usano strategie fiscali discutibili e delocalizzano la produzione in fabbriche asiatiche che sono state oggetto di attenzione dalle ONG che si interessano di diritti umani. E che di certo non hanno più sede in un garage. Non è altrettanto innovatore, in questo campo, Richard Stallman, il fondatore della Free Software Foundation, che vuole l’eliminazione del copyright dai programmi informatici (e forse per questo, nonostante il contributo dato allo sviluppo di Linux, non gira con l’aereo privato)? Ma forse Matteo di Richard non ha mai sentito parlare, oppure lo reputa un perdente.
Bisogna ora, per concludere, chiedersi come mai, davanti ad un attacco portato tramite un sistema mediatico ben collaudato, ma anche di facile replicabilità, la Cgil non abbia trovato un modo di rispondere con altrettanta efficacia utilizzando gli stessi strumenti. In fin dei conti la Confederazione, ad una recente rilevazione non esaustiva svolta da chi scrive, disponeva di oltre 100 siti web di strutture a diverso livello, e i tre quarti di questi erano collegati ad un account Facebook o Twitter. Ma che questi media non siano curati abbastanza, né compresi a fondo lo dimostra la sfortunata scelta dell’hashtag per la manifestazione del 25 ottobre, che non rispondeva a nessuno dei criteri normalmente adottati: concisione, chiarezza, estetica. La pagina Twitter della Cgil nazionale ha circa 43 mila follower, e 67 mila ne ha il micro blog di Susanna Camusso, la quale ha postato dal 2011 solo 255 messaggi. Renzi viene invece seguito da 1,4 milioni di persone, e dal 2009, quando divenne sindaco, ha all’attivo oltre 4000 twitter. Certo, la bontà della comunicazione non si misura sui numeri, ma per una organizzazione che può vantare oltre 5,7 milioni di iscritti avere 100 o 200 mila persone che la seguono online si spiega soltanto con una sottovalutazione dei social media. Eppure la campagna elettorale di Barack Obama nel 2008, e per rimanere in Italia anche la mobilitazione anti-politica di Beppe Grillo, hanno mostrato chiaramente le potenzialità di internet per la politica. Oggi è diventato strategico comunicare, e soprattutto coinvolgere la propria audience, come con i Social Network è facile fare. Obama deve una parte della sua rielezione nel 2012 ai messaggi personalizzati che mandava a ciascun elettore, frutto del lavoro di un computer in cui erano memorizzate le informazioni essenziali di 190 milioni di elettori, che incrociava con i dati raccolti dai sostenitori del presidente durante la campagna del 2008, ed aggiungeva le informazioni provenienti dai profili di 24 milioni di fan Facebook di Obama. Avere tanti follower, in fin dei conti, può fare la differenza, anche se i messaggi di protesta diventano virali non per il medium che li trasmette, ma perché i loro contenuti sono in sintonia con l’esperienza di milioni di persone che sono poi disponibili ad occupare fisicamente le piazze o a sfilare per le città in una giornata festiva .

L’occupazione nell’era digitale

La crisi globale iniziata nel 2008, come purtroppo sappiamo, ha falcidiato il lavoro: sono andati persi milioni di impieghi nel mondo, e quelli rimasti si sono precarizzati in durata e retribuzioni. Per fronteggiare tale situazione tutti i Governi hanno inventato ricette fantasiose, spesso baloccandosi nell’idea che la ripresa sarebbe tornata spontaneamente e all’improvviso come era arrivata la crisi. Pochi si sono posti la domanda cruciale, e cioè se nel nostro mondo, dominato dall’economia digitale e dalla necessità di innovare continuamente prodotti e servizi facendoli costare di meno, vi fosse ancora spazio per il lavoro. Due ricercatori del MIT di Boston, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, nel 2011 avevano dato alle stampe un bel libro (Race Against The Machine: How the Digital Revolution is Accelerating Innovation, Driving Productivity, and Irreversibly Transforming Employment and the Economy) nel quale sostenevano che la crescita post crisi sarebbe stata senza occupazione. E ciò non per motivi macro-economici (la produttività globale, ad esempio), ma a causa dell’impatto della tecnologia sulle competenze, le retribuzioni e l’occupazione: i computer svolgono oggi molte delle attività un tempo riservate all’uomo e in breve potranno sostituire le persone in attività sinora considerate appannaggio degli “umani”, come guidare le automobili, tradurre testi, riconoscere schemi complessi. In verità il timore verso le nuove tecnologie ha sempre “spiazzato” l’umanità, che ha reagito in alcuni casi in maniera violenta (si pensi al luddismo e agli scioperi contro lo Scientific Management). In passato le nuove tecnologie hanno prodotto più lavori nuovi dei vecchi che hanno distrutto, ma non è detto che questo trend possa continuare, inoltre i nuovi lavori nascono in posti diversi rispetto a quelli scomparsi, mandando in bancarotta intere nazioni. Nel nuovo libro da poco pubblicato in America (The Second Machine Age: Work, Progress, and Prosperity in a Time of Brilliant Technologies) I due autori offrono una soluzione alla politica per “vincere la gara contro le macchine”: investire molto nei sistemi educativi; sostenere e incoraggiare l'imprenditorialità, necessaria per sostituire i posti che andranno persi; introdurre una imposta negativa sul reddito per mantenere uno standard minimo di vita per tutti e sostenere i consumi. In definitiva la politica deve guardare al futuro (cosa che non sempre accade, neanche negli USA).