Internet e il cliente
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
Qualche giorno fa sono andato, utilizzando una importante compagnia aerea, in una città del Nord Italia. Caso vuole che, a fine del volo, abbia dimenticato a bordo un piccolo oggetto. La sera stessa, tornato a Roma, chiedevo ad un addetto della compagnia di sapere se l’oggetto fosse o meno stato ritrovato. Dopo 20 minuti di inutili tentativi telefonici, la gentile signorina in uniforme mi diceva che non risultava nulla, ma probabilmente era solo troppo presto, e l’eventuale ritrovamento non era ancora stato segnalato nel database degli oggetti smarriti. Meglio, quindi, richiamare il giorno dopo a un certo numero interno dell’Aeroporto di Fiumicino. I due giorni successivi passavano nell’inutile tentativo di chiamare quel numero, sempre occupato, giorno e notte. Poco male, mi sono detto, chiedo informazioni tramite il bel sito web della compagnia aerea. Primo problema: per trovare la pagina da cui fare la segnalazione ho impiegato oltre mezz’ora. Venuto a capo del labirintico sistema di customer care telematico, e fornite tutte le informazioni richieste (davvero moltissime, lo giuro), me ne andavo a dormire tranquillo. L’indomani trovo una bella email dalla compagnia aerea. Ecco, mi dico, vedi quanto funzionano bene! Purtroppo era solo una letterina standard, compilata da un software, in cui mi si diceva di inviare, a mezzo fax o posta, biglietto, carta di imbarco e descrizione della protesta (ma come, non avevo gia’ fatto tutto tramite il web?). Soprattutto mi si diceva di non rispondere a quella email, che tanto nessuno la avrebbe letta. Un po’ rassegnato, spedivo il fax richiesto, nel quale mi azzardavo anche a chiedere una “dritta” per contattare una persona vera per parlare del mio caso. A tutt’oggi nessuno ha risposto al fax, e io naturalmente ci ho messo una pietra sopra: forse l’oggetto e’ stato ritrovato, ma nessuno lo sapra’ mai, e la mia dimenticanza alimentarà le statistiche sulla noncuranza degli italiani. Mi inquieta però aver scoperto che forse quell’azienda e’ completamente robotizzata, ed ha eliminato le presenze umane. Mi dispiace, invece, che molte grandi aziende nostrane usano Internet e le tecnologie dell’informazione in modo sbagliato, principalmente come uno strumento per risparmiare i costi del personale. Il web e i call center, nelle strategie aziendali, servono sempre più di frequente per fare muro verso i clienti, non per assisterli meglio. Non è un caso, peraltro, che chi lavora in questi servizi abbia sempre i contratti precari e le peggiori retribuzioni. Ironia della sorte, questa la chiamano “cura del cliente”. Ma si curino loro, per favore!
domenica, maggio 28, 2006
sabato, maggio 27, 2006
Nuovo Governo e Open Source
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
Molti di noi pensano che il nuovo esecutivo che governerà l’Italia per (ci auspichiamo) i prossimi cinque anni debba cambiare rotta su molte questioni fondamentali: la scuola e la ricerca, l’accesso al lavoro per i giovani, lo sviluppo dell sud. Alla lista di richieste ne vorrei aggiungere un’altra: puntare verso un uso più ampio dei sistemi informatici basati sul software a codice aperto. Vi sono almeno tre grandi motivi per cui un governo progressista dovrebbe promuovere l’Open Source. Il primo è che gli alti costi delle licenze costituiscono un ostacolo alla riduzione di prezzo dei personal computer. Il costo dell’ hardware, negli anni passati, è nettamente crollato, e lo stesso dicasi per i collegamenti Internet, che sono divenuti più rapidi e meno dispendiosi. Ciò ha permesso a gruppi sempre più vasti di popolazione di rompere il muro del digital divide. Ma il costo dei sistemi operativi e degli applicativi proprietari standard di mercato è, tutto sommato, rimasto invariato ed elevato. Il secondo motivo a favore dell’O.S. è che l’assenza di sistemi di copyright (sostituito da un più democratico copyleft, che mentre tutela il diritto intellettuale dell’autore non limita l’uso dell’idea a un solo soggetto economico) facilita la circolazione dell’innovazione e diviene cosi’ un moltiplicatore economico dell’innovazione. Il terzo motivo è di carattere politico. E’ noto che le grandi aziende multinazionali hanno sempre avuto un enorme potere di influenza sulla politica degli stati. Ma diviene rischioso quando le strategie aziende si sostituiscono alla politica. Solo un esempio: nessuno si è stupito del fatto che il premier cinese Hu Jintao abbia iniziato la recente visita in USA non dalla Casa Bianca, ma bensì dalla supertecnologica dimora di Bill Gates? Potenza dei software proprietari.
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
Molti di noi pensano che il nuovo esecutivo che governerà l’Italia per (ci auspichiamo) i prossimi cinque anni debba cambiare rotta su molte questioni fondamentali: la scuola e la ricerca, l’accesso al lavoro per i giovani, lo sviluppo dell sud. Alla lista di richieste ne vorrei aggiungere un’altra: puntare verso un uso più ampio dei sistemi informatici basati sul software a codice aperto. Vi sono almeno tre grandi motivi per cui un governo progressista dovrebbe promuovere l’Open Source. Il primo è che gli alti costi delle licenze costituiscono un ostacolo alla riduzione di prezzo dei personal computer. Il costo dell’ hardware, negli anni passati, è nettamente crollato, e lo stesso dicasi per i collegamenti Internet, che sono divenuti più rapidi e meno dispendiosi. Ciò ha permesso a gruppi sempre più vasti di popolazione di rompere il muro del digital divide. Ma il costo dei sistemi operativi e degli applicativi proprietari standard di mercato è, tutto sommato, rimasto invariato ed elevato. Il secondo motivo a favore dell’O.S. è che l’assenza di sistemi di copyright (sostituito da un più democratico copyleft, che mentre tutela il diritto intellettuale dell’autore non limita l’uso dell’idea a un solo soggetto economico) facilita la circolazione dell’innovazione e diviene cosi’ un moltiplicatore economico dell’innovazione. Il terzo motivo è di carattere politico. E’ noto che le grandi aziende multinazionali hanno sempre avuto un enorme potere di influenza sulla politica degli stati. Ma diviene rischioso quando le strategie aziende si sostituiscono alla politica. Solo un esempio: nessuno si è stupito del fatto che il premier cinese Hu Jintao abbia iniziato la recente visita in USA non dalla Casa Bianca, ma bensì dalla supertecnologica dimora di Bill Gates? Potenza dei software proprietari.
mercoledì, aprile 05, 2006
Email professorale
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
Aprile 2006
L’email, lo sappiamo, è diventata pervasiva. Milioni di persone la usano, per lavoro o nel tempo libero. Non manca giorno in cui, aprendo la casella di posta, non troviamo decine di nuovi messaggi. Molto più di quanto in passato ricevevamo in termini di fax o di telefonate. Ciò avviene perché dietro all’email vi è un cambiamento di costume: aumenta l’esposizione delle persone agli altri, e usandola ci sentiamo in qualche modo protetti da un coinvolgimento personale che invece il mezzo telefonico richiede. Ma vi sono dei casi in cui l’email rischia di peggiorare la percezione dei rapporti sociali. In un articolo apparso di recente sul New York Times, è stato affrontato l’uso che gli studenti universitari americani fanno dell’email nei confronti dei loro docenti. A parte l’ovvia considerazione che le email espongono i professori ad una pressione che molti considerano eccessiva, tanto di decidere, come regola, di non rispondere, vi è il fatto che usando le email gli studenti spesso si mettono in cattiva luce, come nel caso di uno studente che ha scritto una missiva elettronica al docente annunciando la propria assenza a lezione in quanto “voleva andare a giocare a pallone con il fratello”. Cose americane? No. Anche in Italia succede, a chi sta dietro la cattedra, di ricevere montagne di email dagli studenti. Si va da chi chiede conferma dei libri di testo o degli orari di lezione (entrambi naturalmente regolarmente pubblicati sul sito web della Facoltà), sino a coloro che, prenotati per l’esame, annunciano di non potersi presentare perché i libri sono difficili, loro hanno avuto poco tempo per studiare e, girando voce che il docente è esigente vedono poche speranze di superare la prova. Un comportamento ingenuo che, nonostante la sincerità, non li mette in buona luce. Ma il massimo lo ha raggiunto uno studente che, dopo aver superato l’esame con un voto basso, ha prima deciso di non accettarlo, poi un anno più tardi ha cambiato idea e, ritenendo forse un po’ impegnativo fare la pratica di persona, ha tentato di risolvere la questione per posta elettronica. Insomma, anche se per email non lo si capisce subito, sempre adolescenti rimangono.
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
Aprile 2006
L’email, lo sappiamo, è diventata pervasiva. Milioni di persone la usano, per lavoro o nel tempo libero. Non manca giorno in cui, aprendo la casella di posta, non troviamo decine di nuovi messaggi. Molto più di quanto in passato ricevevamo in termini di fax o di telefonate. Ciò avviene perché dietro all’email vi è un cambiamento di costume: aumenta l’esposizione delle persone agli altri, e usandola ci sentiamo in qualche modo protetti da un coinvolgimento personale che invece il mezzo telefonico richiede. Ma vi sono dei casi in cui l’email rischia di peggiorare la percezione dei rapporti sociali. In un articolo apparso di recente sul New York Times, è stato affrontato l’uso che gli studenti universitari americani fanno dell’email nei confronti dei loro docenti. A parte l’ovvia considerazione che le email espongono i professori ad una pressione che molti considerano eccessiva, tanto di decidere, come regola, di non rispondere, vi è il fatto che usando le email gli studenti spesso si mettono in cattiva luce, come nel caso di uno studente che ha scritto una missiva elettronica al docente annunciando la propria assenza a lezione in quanto “voleva andare a giocare a pallone con il fratello”. Cose americane? No. Anche in Italia succede, a chi sta dietro la cattedra, di ricevere montagne di email dagli studenti. Si va da chi chiede conferma dei libri di testo o degli orari di lezione (entrambi naturalmente regolarmente pubblicati sul sito web della Facoltà), sino a coloro che, prenotati per l’esame, annunciano di non potersi presentare perché i libri sono difficili, loro hanno avuto poco tempo per studiare e, girando voce che il docente è esigente vedono poche speranze di superare la prova. Un comportamento ingenuo che, nonostante la sincerità, non li mette in buona luce. Ma il massimo lo ha raggiunto uno studente che, dopo aver superato l’esame con un voto basso, ha prima deciso di non accettarlo, poi un anno più tardi ha cambiato idea e, ritenendo forse un po’ impegnativo fare la pratica di persona, ha tentato di risolvere la questione per posta elettronica. Insomma, anche se per email non lo si capisce subito, sempre adolescenti rimangono.
Il voto e il mouse
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna mese, marzo 2006
Ormai da anni si parla di voto elettronico e, con le elezioni prossime venture, sembrava venuto il momento di introdurre su larga scala le nuove tecnologie nei seggi. D’altronde la legge finanziaria, gia’ da vari anni, attribuisce fondi al Ministero dell’Interno per “il proseguimento degli studi e il perfezionamento delle fasi di realizzazione sperimentale del voto elettronico” (Finanziaria 2003).
Ma schede elettorali e nuove tecnologie sembrano, in tutto il mondo, andare poco d’accordo. Negli USA, ad esempio, uno dei maggiori produttori di terminali per il voto elettronico, la Diebold, è stata oggetto di varie critiche, tanto che sulla popolare enciclopedia online Wikipedia le sue apparecchiature vengono definite “Black Box Voting” (voto a scatola chiusa). Questi amabili apparecchietti non solo hanno un software proprietario che nessuno puo’ verificare per accertarsi di come facciano i conteggi, ma non stampano i risultati dello scrutinio ne’ dispongono di un sistema di autenticazione dei votanti. Molti ricercatori hanno avanzato l’ipotesi che grazie al voto elettronico la coppia Bush-Cheney abbia ottenuto qualche consistente vantaggio alle elezioni del 2004: secondo Michael Hout, dell’Università di Berkeley, addirittura 260 mila voti in piu’ in Florida. Steven Freeman, professore di Statistica alla University of Pennsylvania, invece, ancora cerca di capire come sia possibile che i sondaggi fatti poco prima delle elezioni siano stati tanto sbagliati, ma solo dove venivano utilizzate i computer per il voto.
Per fortuna, possiamo quindi dire, il governo italiano ha deciso di fare un uso limitatissimo dell’informatica alle elezioni di aprile 2006. Gli elettori di Lazio, Puglia, Sardegna e Liguria (ove è prevista la sperimentazione dell’elettronica) voteranno come d’uso, con scheda e penna. I loro voti saranno scrutinati in due modi, quello tradizionale e tramite un computer, che servirà solo da abaco elettronico. In caso di discordanza tra conteggio umano e calcolo informatico, avra’ prevalenza il primo, quasi a ricordarci che sempre di macchine si tratta. E che, elettronica o meno, quel che conta è solo la democrazia, cioè il rispetto delle scelte dei cittadini.
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna mese, marzo 2006
Ormai da anni si parla di voto elettronico e, con le elezioni prossime venture, sembrava venuto il momento di introdurre su larga scala le nuove tecnologie nei seggi. D’altronde la legge finanziaria, gia’ da vari anni, attribuisce fondi al Ministero dell’Interno per “il proseguimento degli studi e il perfezionamento delle fasi di realizzazione sperimentale del voto elettronico” (Finanziaria 2003).
Ma schede elettorali e nuove tecnologie sembrano, in tutto il mondo, andare poco d’accordo. Negli USA, ad esempio, uno dei maggiori produttori di terminali per il voto elettronico, la Diebold, è stata oggetto di varie critiche, tanto che sulla popolare enciclopedia online Wikipedia le sue apparecchiature vengono definite “Black Box Voting” (voto a scatola chiusa). Questi amabili apparecchietti non solo hanno un software proprietario che nessuno puo’ verificare per accertarsi di come facciano i conteggi, ma non stampano i risultati dello scrutinio ne’ dispongono di un sistema di autenticazione dei votanti. Molti ricercatori hanno avanzato l’ipotesi che grazie al voto elettronico la coppia Bush-Cheney abbia ottenuto qualche consistente vantaggio alle elezioni del 2004: secondo Michael Hout, dell’Università di Berkeley, addirittura 260 mila voti in piu’ in Florida. Steven Freeman, professore di Statistica alla University of Pennsylvania, invece, ancora cerca di capire come sia possibile che i sondaggi fatti poco prima delle elezioni siano stati tanto sbagliati, ma solo dove venivano utilizzate i computer per il voto.
Per fortuna, possiamo quindi dire, il governo italiano ha deciso di fare un uso limitatissimo dell’informatica alle elezioni di aprile 2006. Gli elettori di Lazio, Puglia, Sardegna e Liguria (ove è prevista la sperimentazione dell’elettronica) voteranno come d’uso, con scheda e penna. I loro voti saranno scrutinati in due modi, quello tradizionale e tramite un computer, che servirà solo da abaco elettronico. In caso di discordanza tra conteggio umano e calcolo informatico, avra’ prevalenza il primo, quasi a ricordarci che sempre di macchine si tratta. E che, elettronica o meno, quel che conta è solo la democrazia, cioè il rispetto delle scelte dei cittadini.
martedì, febbraio 07, 2006
Talenti creativi
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
Qualche anno fa, un brillante economista americano, Richard Florida, scrisse un libro per dimostrare come, nella Società moderna, il benessere delle Nazioni nascesse non più da un ampio settore industriale o dai servizi ad alto valore aggiunto, ma bensì dall’esistenza di una vasta classe creativa. Inventori, manager, ricercatori, lavoratori della conoscenza, artisti ecc. rappresentavano in America, nel 2002, il 30% degli occupati, e producevano il 47% del benessere economico, facendo di quel paese un luogo di elezione per le persone di talento. Recentemente lo stesso autore, tornando sull’argomento con un nuovo libro, lancia un allarme: la scellerata politica antiterrorismo dell’Amministrazione Bush, rendendo più difficile la vita in America per gli stranieri, avrà conseguenze economiche gravissime, in quanto allontana le persone di talento.
Guarda caso, il discorso sembra attagliarsi anche ai nostri governanti, che di talento ne hanno poco, e per questo non prestano attenzione più di tanto a dettagli come la creatività. Negli USA, dove ci si interroga sui rischi della “chiusura dei confini”, ci sono attualmente oltre 577 mila studenti universitari provenienti da paesi stranieri, cui se ne aggiungono 195 mila iscritti a programmi di scambio culturale di durata più breve. Molti di questi, una volta laureati, rimarranno a lavorare in Usa, e fonderanno grandi aziende innovative, come fece il moscovita Sergey Brin, padre di Google, o l’indiano Sabeer Bathia, cui dobbiamo l’invenzione di Hotmail. Ma tutta la Silicon Valley è piena di storie simili: oltre il 30% delle aziende internet in quella fascia di terreno sono state fondate da immigrati. E in Italia? Anche noi gareggiamo sui talenti, ma non avendo capito bene di cosa si parla, lo facciamo al contrario. Da noi, secondo le statistiche governative, setacciando tutte le Università italiane troviamo circa 31 mila stranieri (un venticinquesimo rispetto agli Usa, malgrado una popolazione solo 5 volte superiore), anche se poi se ne laureano ogni anno meno del 8%. Si tratta, in valore relativo, del 1,8% della popolazione universitaria, che neanche bilancia il numero degli italiani che studiano all’estero (2,2%).
In Italia, quindi, il rischio che un giovane immigrato di talento si laurei e fondi una azienda innovativa è davvero remoto. Se esistesse una competizione globale per prendersi i migliori talenti, come sostiene Florida, noi italiani l’avremmo persa prima di iniziarla.
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
Qualche anno fa, un brillante economista americano, Richard Florida, scrisse un libro per dimostrare come, nella Società moderna, il benessere delle Nazioni nascesse non più da un ampio settore industriale o dai servizi ad alto valore aggiunto, ma bensì dall’esistenza di una vasta classe creativa. Inventori, manager, ricercatori, lavoratori della conoscenza, artisti ecc. rappresentavano in America, nel 2002, il 30% degli occupati, e producevano il 47% del benessere economico, facendo di quel paese un luogo di elezione per le persone di talento. Recentemente lo stesso autore, tornando sull’argomento con un nuovo libro, lancia un allarme: la scellerata politica antiterrorismo dell’Amministrazione Bush, rendendo più difficile la vita in America per gli stranieri, avrà conseguenze economiche gravissime, in quanto allontana le persone di talento.
Guarda caso, il discorso sembra attagliarsi anche ai nostri governanti, che di talento ne hanno poco, e per questo non prestano attenzione più di tanto a dettagli come la creatività. Negli USA, dove ci si interroga sui rischi della “chiusura dei confini”, ci sono attualmente oltre 577 mila studenti universitari provenienti da paesi stranieri, cui se ne aggiungono 195 mila iscritti a programmi di scambio culturale di durata più breve. Molti di questi, una volta laureati, rimarranno a lavorare in Usa, e fonderanno grandi aziende innovative, come fece il moscovita Sergey Brin, padre di Google, o l’indiano Sabeer Bathia, cui dobbiamo l’invenzione di Hotmail. Ma tutta la Silicon Valley è piena di storie simili: oltre il 30% delle aziende internet in quella fascia di terreno sono state fondate da immigrati. E in Italia? Anche noi gareggiamo sui talenti, ma non avendo capito bene di cosa si parla, lo facciamo al contrario. Da noi, secondo le statistiche governative, setacciando tutte le Università italiane troviamo circa 31 mila stranieri (un venticinquesimo rispetto agli Usa, malgrado una popolazione solo 5 volte superiore), anche se poi se ne laureano ogni anno meno del 8%. Si tratta, in valore relativo, del 1,8% della popolazione universitaria, che neanche bilancia il numero degli italiani che studiano all’estero (2,2%).
In Italia, quindi, il rischio che un giovane immigrato di talento si laurei e fondi una azienda innovativa è davvero remoto. Se esistesse una competizione globale per prendersi i migliori talenti, come sostiene Florida, noi italiani l’avremmo persa prima di iniziarla.
Bocciati in innovazione
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
La fine dell’anno è dedicata ai bilanci (non solo quelli economici delle imprese) e la Comunità Europea, come sempre ha reso nota la graduatoria delle nazioni sul versante della capacità di innovare. Si tratta di un indice analitico che assegna un punteggio a tre aree principali: le condizioni strutturali che facilitano l’innovazione; gli investimenti in ricerca e sviluppo; la ricaduta delle innovazioni sulle aziende. L’Italia, come sempre, fa la sua pessima figura. Al dodicesimo posto rispetto alle 25 nazioni europee, al diciassettesimo se si considerano anche le aree dell’allargamento. Nelle variabili piu’ importanti, i cosidetti “driver di innovazione”, si trova in ventunesima posizione su 25, mentre nell’innovazione imprenditoriale ci troviamo al ventesimo posto. Davanti a noi grandi e innovative nazioni con le quali non possiamo sperare di competere, come il Giappone, il Regno Unito, gli Stati Uniti e le zone Scandinave, ma anche gli ex paesi dell’Est: Lituania, Polonia, Ungheria, ecc. Con i quali, al contrario, dovremmo competere agevolmente. Ma pare non vada così. Sembra utile ricordare che qualche settimana fa, dal World Economic Forum di Davos ci era arrivata un’altra stroncatura: in quel caso, nell’indice dei paesi più competitivi del mondo, l’Italia si era posizionata in quarantottesima posizione, superata persino da alcune nazioni africane.
Ci balocchiamo spesso con il “genio” italico: non era un connazionale Leonardo da Vinci? E Meucci? E Fermi? Tutte persone che con le loro invenzioni hanno rivoluzionato l’epoca in cui vivevano. Come e’ possibile che si sia caduti tanto in basso? La risposta è semplice: oggi il genio (che certamente non ci manca) non basta per fare l’innovazione. Servono invece infrastrutture, specialmente digitali, grandi istituti di ricerca che godano di finanziamenti concentrati su pochi progetti di livello mondiale, e una politica fiscale che premi le imprese che sono creative davvero, non sulla carta e al solo scopo di risparmiare lavoro.
Ma i nostri governi amano di più innovare con i ponti sospesi sul mare e con i decoder per vedere le partite di calcio. Ola!
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
La fine dell’anno è dedicata ai bilanci (non solo quelli economici delle imprese) e la Comunità Europea, come sempre ha reso nota la graduatoria delle nazioni sul versante della capacità di innovare. Si tratta di un indice analitico che assegna un punteggio a tre aree principali: le condizioni strutturali che facilitano l’innovazione; gli investimenti in ricerca e sviluppo; la ricaduta delle innovazioni sulle aziende. L’Italia, come sempre, fa la sua pessima figura. Al dodicesimo posto rispetto alle 25 nazioni europee, al diciassettesimo se si considerano anche le aree dell’allargamento. Nelle variabili piu’ importanti, i cosidetti “driver di innovazione”, si trova in ventunesima posizione su 25, mentre nell’innovazione imprenditoriale ci troviamo al ventesimo posto. Davanti a noi grandi e innovative nazioni con le quali non possiamo sperare di competere, come il Giappone, il Regno Unito, gli Stati Uniti e le zone Scandinave, ma anche gli ex paesi dell’Est: Lituania, Polonia, Ungheria, ecc. Con i quali, al contrario, dovremmo competere agevolmente. Ma pare non vada così. Sembra utile ricordare che qualche settimana fa, dal World Economic Forum di Davos ci era arrivata un’altra stroncatura: in quel caso, nell’indice dei paesi più competitivi del mondo, l’Italia si era posizionata in quarantottesima posizione, superata persino da alcune nazioni africane.
Ci balocchiamo spesso con il “genio” italico: non era un connazionale Leonardo da Vinci? E Meucci? E Fermi? Tutte persone che con le loro invenzioni hanno rivoluzionato l’epoca in cui vivevano. Come e’ possibile che si sia caduti tanto in basso? La risposta è semplice: oggi il genio (che certamente non ci manca) non basta per fare l’innovazione. Servono invece infrastrutture, specialmente digitali, grandi istituti di ricerca che godano di finanziamenti concentrati su pochi progetti di livello mondiale, e una politica fiscale che premi le imprese che sono creative davvero, non sulla carta e al solo scopo di risparmiare lavoro.
Ma i nostri governi amano di più innovare con i ponti sospesi sul mare e con i decoder per vedere le partite di calcio. Ola!
Le novità del mese.
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese, ottobre 2005.
La principale novità, in argomento di e-Government, con cui si chiude il mese di ottobre 2005 è che l’instancabile Ministro dell’Innovazione Tecnologica, messosi assieme a quello delle Funzione Pubblica, ha decretato che da oggi in poi, quando si forniscono servizi online ai cittadini, bisognerà capire se gli italiani li gradiscono, oppure se ne hanno schifo. Sembra quasi evidente che al cliente va dato quel che gli serve, ma in Italia ci è voluta la “Direttiva per la qualità dei servizi on line e la misurazione della soddisfazione degli utenti” (del 27 luglio 2005, pubblicata in Gazzetta Ufficiale con un po’ di ritardo, a metà ottobre), firmata da due ministri, per richiamare l’obbligo, per le PA che attuano servizi in rete, di rilevare il parere dei cittadini sul loro operato. Ciò può essere fatto in maniera diretta, ad esempio tramite un questionario, in maniera indiretta, “fondata sulle informazioni acquisite attraverso le e-mail ricevute, il contact center e ogni altra forma di contatto prevista con gli utenti” e, infine, con una ulteriore modalità, definita “tecnica”, che si basa sulla navigazione nel sito.
Ora mentre il primo modo si capisce benissimo, per il secondo e il terzo sono dovute alcune spiegazioni. Infatti, dicono al ministero, se arrivano tante email su uno stesso argomento, probabilmente quella materia è trattata male nel sito, e quindi va potenziata. Lo stesso dicasi per i modelli di navigazione: se in una pagina non va mai nessuno o vi si trattiene pochissimo, quell’informazione potrebbe esser poco utile e magari sarebbe bene aggiornarla o sopprimerla del tutto, dando spazio a cose più importanti. Tutto bene, quindi, se non che poi ci vorrà qualcuno, abbastanza esperto, in grado di analizzare tutti i dati provenienti dalle diverse rilevazioni, che sappia incrociare i pareri dei questionari con il contenuto delle email e con i modelli di navigazione. Compito che è stato affidato al CNIPA, il quale ha istituito a tal fine un “centro di competenza”, cioè una struttura che deve fornire informazioni e consulenze agli uffici pubblici per applicare al meglio la direttiva. Tutto bene, quindi. Ma … un momento: ma chi farà davvero questo lavoro? Non ci ricordiamo che la prossima Finanziaria ha tagliato di nuovo le risorse di personale e consulenze alla PA? Tremonti salverà la qualità dei servizi online?
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese, ottobre 2005.
La principale novità, in argomento di e-Government, con cui si chiude il mese di ottobre 2005 è che l’instancabile Ministro dell’Innovazione Tecnologica, messosi assieme a quello delle Funzione Pubblica, ha decretato che da oggi in poi, quando si forniscono servizi online ai cittadini, bisognerà capire se gli italiani li gradiscono, oppure se ne hanno schifo. Sembra quasi evidente che al cliente va dato quel che gli serve, ma in Italia ci è voluta la “Direttiva per la qualità dei servizi on line e la misurazione della soddisfazione degli utenti” (del 27 luglio 2005, pubblicata in Gazzetta Ufficiale con un po’ di ritardo, a metà ottobre), firmata da due ministri, per richiamare l’obbligo, per le PA che attuano servizi in rete, di rilevare il parere dei cittadini sul loro operato. Ciò può essere fatto in maniera diretta, ad esempio tramite un questionario, in maniera indiretta, “fondata sulle informazioni acquisite attraverso le e-mail ricevute, il contact center e ogni altra forma di contatto prevista con gli utenti” e, infine, con una ulteriore modalità, definita “tecnica”, che si basa sulla navigazione nel sito.
Ora mentre il primo modo si capisce benissimo, per il secondo e il terzo sono dovute alcune spiegazioni. Infatti, dicono al ministero, se arrivano tante email su uno stesso argomento, probabilmente quella materia è trattata male nel sito, e quindi va potenziata. Lo stesso dicasi per i modelli di navigazione: se in una pagina non va mai nessuno o vi si trattiene pochissimo, quell’informazione potrebbe esser poco utile e magari sarebbe bene aggiornarla o sopprimerla del tutto, dando spazio a cose più importanti. Tutto bene, quindi, se non che poi ci vorrà qualcuno, abbastanza esperto, in grado di analizzare tutti i dati provenienti dalle diverse rilevazioni, che sappia incrociare i pareri dei questionari con il contenuto delle email e con i modelli di navigazione. Compito che è stato affidato al CNIPA, il quale ha istituito a tal fine un “centro di competenza”, cioè una struttura che deve fornire informazioni e consulenze agli uffici pubblici per applicare al meglio la direttiva. Tutto bene, quindi. Ma … un momento: ma chi farà davvero questo lavoro? Non ci ricordiamo che la prossima Finanziaria ha tagliato di nuovo le risorse di personale e consulenze alla PA? Tremonti salverà la qualità dei servizi online?
Se la montagna partorisce il topolino
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
Molti anni fa, quando Internet era agli inizi, anzi, ancora non esisteva, in quanto era un affare privato di un ente governativo americano chiamato ARPA, si inizio’ a porre il problema di come gestire una rete che stava aumentando rapidamente, passando dalle centinaia di computer collegati alle migliaia. Il problema era di non piccolo conto: per la sua integrità, nella rete non potevano esserci due macchine con lo stesso numero di identificazione (una serie di 12 numeri, organizzati tre a tre, separati da punti, detto indirizzo IP). Inoltre ricordarsi tutti quei numeri era difficile, e serviva un sistema di nomi che aiutasse a ricordarlo. Per affrontare la problematica, il Governo americano creò un apposito organismo, detto ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), con lo scopo di assegnare nomi e numeri. ICANN, essendo uno dei primi organi di Internet, divenne anche, in brevissimo tempo, un importante punto di governo della rete.
ICANN era, ed è ancora oggi, alle dipendenze del Dipartimento USA del Commercio. Perfettamente logico a quei tempi, con Internet popolato quasi esclusivamente di aziende, ministeri e università americane. Molto più difficile da capire oggi, quando gli americani su internet rappresentano neanche un terzo del totale dell’utenza mondiale di un miliardo di persone.
Pensavano che a Tunisi, in occasione del World Summit on the Information Society, la questione avrebbe trovato una soluzione democratica. In fin dei conti la situazione è paradossale: come se chi ha inventato il treno potesse decidere il prezzo del biglietto in tutte le nazioni del mondo. Ma non è stato così: non soltanto l’ICANN continua ad esistere, ma mantiene intatte le sue prerogative di controllo sulla tecnologia della rete. Gli europei hanno ottenuto di affiancargli un ben poco operativo “Forum per il governo di internet”. Nome sicuramente azzeccato: quando non puoi fare nulla, almeno discutine, e un forum sembra proprio il luogo adatto. E pensare che a Tunisi c’era anche Kofi Annan, ma poi ha potuto far ben poco: era troppo impegnato a sperimentare il minicomputer a manovella inventato da Negroponte per i bambini africani.
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
Molti anni fa, quando Internet era agli inizi, anzi, ancora non esisteva, in quanto era un affare privato di un ente governativo americano chiamato ARPA, si inizio’ a porre il problema di come gestire una rete che stava aumentando rapidamente, passando dalle centinaia di computer collegati alle migliaia. Il problema era di non piccolo conto: per la sua integrità, nella rete non potevano esserci due macchine con lo stesso numero di identificazione (una serie di 12 numeri, organizzati tre a tre, separati da punti, detto indirizzo IP). Inoltre ricordarsi tutti quei numeri era difficile, e serviva un sistema di nomi che aiutasse a ricordarlo. Per affrontare la problematica, il Governo americano creò un apposito organismo, detto ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), con lo scopo di assegnare nomi e numeri. ICANN, essendo uno dei primi organi di Internet, divenne anche, in brevissimo tempo, un importante punto di governo della rete.
ICANN era, ed è ancora oggi, alle dipendenze del Dipartimento USA del Commercio. Perfettamente logico a quei tempi, con Internet popolato quasi esclusivamente di aziende, ministeri e università americane. Molto più difficile da capire oggi, quando gli americani su internet rappresentano neanche un terzo del totale dell’utenza mondiale di un miliardo di persone.
Pensavano che a Tunisi, in occasione del World Summit on the Information Society, la questione avrebbe trovato una soluzione democratica. In fin dei conti la situazione è paradossale: come se chi ha inventato il treno potesse decidere il prezzo del biglietto in tutte le nazioni del mondo. Ma non è stato così: non soltanto l’ICANN continua ad esistere, ma mantiene intatte le sue prerogative di controllo sulla tecnologia della rete. Gli europei hanno ottenuto di affiancargli un ben poco operativo “Forum per il governo di internet”. Nome sicuramente azzeccato: quando non puoi fare nulla, almeno discutine, e un forum sembra proprio il luogo adatto. E pensare che a Tunisi c’era anche Kofi Annan, ma poi ha potuto far ben poco: era troppo impegnato a sperimentare il minicomputer a manovella inventato da Negroponte per i bambini africani.
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