martedì, febbraio 07, 2006

Talenti creativi

Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese

Qualche anno fa, un brillante economista americano, Richard Florida, scrisse un libro per dimostrare come, nella Società moderna, il benessere delle Nazioni nascesse non più da un ampio settore industriale o dai servizi ad alto valore aggiunto, ma bensì dall’esistenza di una vasta classe creativa. Inventori, manager, ricercatori, lavoratori della conoscenza, artisti ecc. rappresentavano in America, nel 2002, il 30% degli occupati, e producevano il 47% del benessere economico, facendo di quel paese un luogo di elezione per le persone di talento. Recentemente lo stesso autore, tornando sull’argomento con un nuovo libro, lancia un allarme: la scellerata politica antiterrorismo dell’Amministrazione Bush, rendendo più difficile la vita in America per gli stranieri, avrà conseguenze economiche gravissime, in quanto allontana le persone di talento.
Guarda caso, il discorso sembra attagliarsi anche ai nostri governanti, che di talento ne hanno poco, e per questo non prestano attenzione più di tanto a dettagli come la creatività. Negli USA, dove ci si interroga sui rischi della “chiusura dei confini”, ci sono attualmente oltre 577 mila studenti universitari provenienti da paesi stranieri, cui se ne aggiungono 195 mila iscritti a programmi di scambio culturale di durata più breve. Molti di questi, una volta laureati, rimarranno a lavorare in Usa, e fonderanno grandi aziende innovative, come fece il moscovita Sergey Brin, padre di Google, o l’indiano Sabeer Bathia, cui dobbiamo l’invenzione di Hotmail. Ma tutta la Silicon Valley è piena di storie simili: oltre il 30% delle aziende internet in quella fascia di terreno sono state fondate da immigrati. E in Italia? Anche noi gareggiamo sui talenti, ma non avendo capito bene di cosa si parla, lo facciamo al contrario. Da noi, secondo le statistiche governative, setacciando tutte le Università italiane troviamo circa 31 mila stranieri (un venticinquesimo rispetto agli Usa, malgrado una popolazione solo 5 volte superiore), anche se poi se ne laureano ogni anno meno del 8%. Si tratta, in valore relativo, del 1,8% della popolazione universitaria, che neanche bilancia il numero degli italiani che studiano all’estero (2,2%).
In Italia, quindi, il rischio che un giovane immigrato di talento si laurei e fondi una azienda innovativa è davvero remoto. Se esistesse una competizione globale per prendersi i migliori talenti, come sostiene Florida, noi italiani l’avremmo persa prima di iniziarla.

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