Luci ed ombre dell’Amministrazione Digitale
Molto di recente il presidente del CNIPA, lìorganismo che cura l’informatica nell’apparato statale, ha reso noto le condizioni del sistema di connettività pubblica a fine 2006. Ne esce una fotografia ricca di luci, ma anche oscurata da ampie illogicità “comportamentali”. Un caso su tutti: se da una parte è sicuramente positivo il fatto che il numero della transazioni in rete eseguite tra amministrazioni e cittadino sia cresciuto, rispetto al 2005, di oltre il 10%, dall’altra pare allarmante il dato che solo il 2% delle 260 milioni di operazioni svolte online sia stato supportato da sistemi di autenticazione sicura degli utenti, basata su smart card o carte personali. In pratica, la quasi totalità delle operazioni svolte sono potenzialmente a rischio. Il fatto non va sottovalutato. Oggi una delle minacce più serie per chi usa Internet sta nel furto di identità digitale. La Rsa Security (www.rsasecurity.com), una azienda specializzata nella protezione di informazioni private e identità digitali, sostiene che il fenomeno è in rapida crescita, e potrebbe avere serie ripercussioni sulle imprese online. In media, infatti, un consumatore evoluto crea oltre 20 diverse identità digitali, fornendo informazioni personali a siti web, con il 64% che utilizza la stessa password per accedere a tipi diversi di siti, dall'email al conto bancario. Il 33% ha addirittura ammesso di condividere le password con amici, colleghi e familiari. Il governo americano, per contrastare l’aumento dei crimini ai danni degli incauti utilizzatori di Internet, ha diffuso in rete una brochure multilingue in cui avvisa i cittadini di tenere confidenziale il numero della sicurezza sociale, che viene sempre più spesso utilizzato – incautamente per la verità – per autenticare l’utente nelle transazioni con l’apparato statale. Certo che pare almeno strano che i governi prima si siano posti, alla ricerca di una maggiore efficienza economica, il problema di aumentare il numero delle transazioni in rete, e solo dopo quello di garantire la sicurezza degli utenti. Previo poi correre ai ripari tardivamente. Un comportamento molto old society, in fin dei conti.
giovedì, agosto 30, 2007
I giovani e la P.A.
Nell’ultima edizione del Forum della Pubblica Amministrazione, tra i molti convegni autocelebrativi organizzati da ministeri ed authority, trovava spazio, un po’ nascosto nelle pieghe del programma ufficiale, un incontro dedicato ai giovani (titolo: Vecchio sarà lei! … Quale spazio c’è per i giovani nella PA?). La domanda è d’obbligo: in un paese che invecchia rapidamente e in cui il potere è saldamente nelle mani di persone over sessanta (e non di rado over settanta), c’e’ davvero qualche possibilità per i giovani? Va subito detto che gli interventi nel blog degli organizzatori della manifestazione lasciano pochi dubbi in merito. Il rinnovamento dovrebbe passare per l’immissione in ruolo di lavoratori giovani e preparati, ma questi, purtroppo, vengono coinvolti nella macchina dello Stato in condizioni di precariato e ovviamente senza responsabilità decisionali. I dati Inps sui collaboratori nel 2006 (la gran parte dei nuovi ingressi nel settore pubblico avviene per tale strada), infatti, ci dicono che la PA ha a libro paga oltre 75 mila persone, neanche molto giovani (età media 39 anni, nel settore privato e’ di 36), ai quali elargisce una sontuosa retribuzione di neanche 8300 Euro l’anno. Per cercare qualcuno più giovane e un po’ meglio pagato bisogna guardare ai ricercatori. Dottorandi di ricerca e borsisti del ministero dell’Università hanno in media 31 anni e percepiscono oltre 11 mila euro. Peccato che a 30 anni, all’estero le carriere scientifiche sono ormai stabilizzate. Un tempo capitava anche in Italia: Fermi a quell’età insegnava Fisica Teorica, dirigeva il gruppo di ricerca di Via Panisperna e a 37 anni avrebbe preso il premio Nobel. Ma quella, ovviamente era un’altra pubblica amministrazione, in cui contavano di più la sostanza che la forma. Ed essere giovani era un valore positivo. Oggi, nella PA, essere giovane significa soprattutto essere precario, una condizione scomoda che li mette alla mercè dei “vecchi” dirigenti dai quali dipende la riconferma nell’incarico. In tali condizioni, ovviamente, innovare è un rischio che non vale neanche tentare.
Nell’ultima edizione del Forum della Pubblica Amministrazione, tra i molti convegni autocelebrativi organizzati da ministeri ed authority, trovava spazio, un po’ nascosto nelle pieghe del programma ufficiale, un incontro dedicato ai giovani (titolo: Vecchio sarà lei! … Quale spazio c’è per i giovani nella PA?). La domanda è d’obbligo: in un paese che invecchia rapidamente e in cui il potere è saldamente nelle mani di persone over sessanta (e non di rado over settanta), c’e’ davvero qualche possibilità per i giovani? Va subito detto che gli interventi nel blog degli organizzatori della manifestazione lasciano pochi dubbi in merito. Il rinnovamento dovrebbe passare per l’immissione in ruolo di lavoratori giovani e preparati, ma questi, purtroppo, vengono coinvolti nella macchina dello Stato in condizioni di precariato e ovviamente senza responsabilità decisionali. I dati Inps sui collaboratori nel 2006 (la gran parte dei nuovi ingressi nel settore pubblico avviene per tale strada), infatti, ci dicono che la PA ha a libro paga oltre 75 mila persone, neanche molto giovani (età media 39 anni, nel settore privato e’ di 36), ai quali elargisce una sontuosa retribuzione di neanche 8300 Euro l’anno. Per cercare qualcuno più giovane e un po’ meglio pagato bisogna guardare ai ricercatori. Dottorandi di ricerca e borsisti del ministero dell’Università hanno in media 31 anni e percepiscono oltre 11 mila euro. Peccato che a 30 anni, all’estero le carriere scientifiche sono ormai stabilizzate. Un tempo capitava anche in Italia: Fermi a quell’età insegnava Fisica Teorica, dirigeva il gruppo di ricerca di Via Panisperna e a 37 anni avrebbe preso il premio Nobel. Ma quella, ovviamente era un’altra pubblica amministrazione, in cui contavano di più la sostanza che la forma. Ed essere giovani era un valore positivo. Oggi, nella PA, essere giovane significa soprattutto essere precario, una condizione scomoda che li mette alla mercè dei “vecchi” dirigenti dai quali dipende la riconferma nell’incarico. In tali condizioni, ovviamente, innovare è un rischio che non vale neanche tentare.
Che strani i cinesi
La Cina, sia che la si veda come temibile concorrente commerciale, sia come una straordinaria opportunità di business, è da tempo al centro dei pensieri di molti decision maker. Si organizzano missioni commerciali ed accademiche, i partiti politici e i sindacati cercano di penetrarne le complesse logiche di funzionamento politico. La Cina, insomma, attrae e fa paura. Ma pare anche che stia deludendo coloro che avevano pensato che potesse rappresentare un nuovo Eldorado. Business Week, il settimanale americano che anticipa spesso gli umori del capitalismo d’oltreoceano, lamenta, in un recente numero, la eccessiva cautela dei consumatori cinesi. I quali, nonostante la imponente crescita economica e l’aumento dei salari che ha costituito un enorme ceto intermedio, sono restii a correre nei centri commerciali a comprare televisori, cellulari, e motociclette con le quali sostituire i tradizionali cicli che riempiono le strade della Cina. Certo, la vendita di automobili l’anno scorso è cresciuta del 30%, ma rimane il fatto che gli 1,3 miliardi di cinesi, con una popolazione pari a quattro volte gli Stati Uniti, spendono solo il 12% rispetto agli americani. E la situazione non è destinata a capovolgersi in fretta, in quanto i cinesi anziché spendere tutto quello che guadagnano, paiono intenzionati a risparmiare. A ben scavare, però, il comportamento dei consumatori in quella parte del mondo sembra del tutto logica. Infatti, con la trasformazione in senso capitalistico della società, sono stati aboliti o pesantemente ridotti molti benefici di cui i cinesi godevano, quali l’abitazione di proprietà dello Stato, il sistema sanitario e quello scolastico gratuiti, e la pensione pubblica. Oggi chi vuole questi servizi è costretto a pagarli, spesso a caro prezzo. Nel frattempo, nonostante il tentativo di aumentare i salari di pari passo con la crescita economica, le retribuzioni rappresentano oggi il 41,4% del PIL, con un calo di oltre 11 punti rispetto al 1998. Negli Usa, questo rapporto si attesta al 57%. E’ evidente che, in tali condizioni si sia più propensi al risparmio che alla spesa. Le grandi corporation americane, in definitiva, stanno scoprendo i lati negativi del capitalismo cinese che esse stesse hanno partorito tramite le politiche dei bassi costi della manodopera.
La Cina, sia che la si veda come temibile concorrente commerciale, sia come una straordinaria opportunità di business, è da tempo al centro dei pensieri di molti decision maker. Si organizzano missioni commerciali ed accademiche, i partiti politici e i sindacati cercano di penetrarne le complesse logiche di funzionamento politico. La Cina, insomma, attrae e fa paura. Ma pare anche che stia deludendo coloro che avevano pensato che potesse rappresentare un nuovo Eldorado. Business Week, il settimanale americano che anticipa spesso gli umori del capitalismo d’oltreoceano, lamenta, in un recente numero, la eccessiva cautela dei consumatori cinesi. I quali, nonostante la imponente crescita economica e l’aumento dei salari che ha costituito un enorme ceto intermedio, sono restii a correre nei centri commerciali a comprare televisori, cellulari, e motociclette con le quali sostituire i tradizionali cicli che riempiono le strade della Cina. Certo, la vendita di automobili l’anno scorso è cresciuta del 30%, ma rimane il fatto che gli 1,3 miliardi di cinesi, con una popolazione pari a quattro volte gli Stati Uniti, spendono solo il 12% rispetto agli americani. E la situazione non è destinata a capovolgersi in fretta, in quanto i cinesi anziché spendere tutto quello che guadagnano, paiono intenzionati a risparmiare. A ben scavare, però, il comportamento dei consumatori in quella parte del mondo sembra del tutto logica. Infatti, con la trasformazione in senso capitalistico della società, sono stati aboliti o pesantemente ridotti molti benefici di cui i cinesi godevano, quali l’abitazione di proprietà dello Stato, il sistema sanitario e quello scolastico gratuiti, e la pensione pubblica. Oggi chi vuole questi servizi è costretto a pagarli, spesso a caro prezzo. Nel frattempo, nonostante il tentativo di aumentare i salari di pari passo con la crescita economica, le retribuzioni rappresentano oggi il 41,4% del PIL, con un calo di oltre 11 punti rispetto al 1998. Negli Usa, questo rapporto si attesta al 57%. E’ evidente che, in tali condizioni si sia più propensi al risparmio che alla spesa. Le grandi corporation americane, in definitiva, stanno scoprendo i lati negativi del capitalismo cinese che esse stesse hanno partorito tramite le politiche dei bassi costi della manodopera.
L’innovazione e il Partito che non c’e’
Di innovazione parlano tutti i partiti, e quando ne discutono la mettono quasi sempre al centro della propria azione politica. Anche i partiti che ancora non esistono ci pensano, come il nascente Partito Democratico, che ha dedicato uno dei suoi primissimi laboratori politici al tema dell’innovazione. I risultati cui gli esperti che hanno partecipato al laboratorio sono pervenuti indicano due tematiche come strategiche per l’immediato futuro: le infrastrutture di rete e il miglioramento dei processi di e-Government. Argomenti assolutamente importanti: non c’e’ innovazione senza infrastrutture; e ciò non costituisce una novità, se è vero che anche la società industriale non si sarebbe sviluppata senza centrali elettriche e sistemi di comunicazione come le ferrovie e le strade. E non c’e’ innovazione senza una pubblica amministrazione moderna, che funzioni bene e non sia un peso per il sistema produttivo.
Ma l’innovazione non è solo questo. L’innovazione ci darà un futuro migliore, ma solo se la curiamo giorno per giorno. Ai telefonini e a Internet succederanno altre novità tecnologiche, che ci permetteranno di fare meglio, in maniera più economica e in minor tempo molte delle cose che oggi ci costano fatica. Innovare significa cambiare il modo in cui le persone lavorano e vivono e come le aziende sono organizzate, alla ricerca di efficienza e di compatibilità negli stili di vita di uomini e donne. Perchè ciò avvenga non bastano le tattiche come quelle sinora delineate, serve una strategia vera e propria, che metta al centro la produzione diffusa di innovazione. Ciò può avvenire solo se si salda stabilmente il rapporto tra centri di ricerca, imprese e pubbliche amministrazioni. Oggi questo rapporto semplicemente non esiste, almeno se si escludono pochi casi di eccellenza che però più che best practices sono oasi nel deserto. I Governi spendono poco, ma soprattutto male, con procedure burocratiche che rendono impossibile innovare davvero; le aziende cercano di conservare allo stremo i propri know how, senza preoccuparsi di incrementarli, e ciò facendo perdono competitività e neanche se ne avvedono; le Università, strangolate da vincoli di bilancio e da una politica miope che non affronta i costi reali della formazione, producono laureati e ricercatori che fuggono nei maggiori laboratori del mondo, dove oltre che il genio trovano anche i mezzi per lavorare.
Chissà, forse il vero Partito che non c’e’ è proprio quello dell’innovazione.
Di innovazione parlano tutti i partiti, e quando ne discutono la mettono quasi sempre al centro della propria azione politica. Anche i partiti che ancora non esistono ci pensano, come il nascente Partito Democratico, che ha dedicato uno dei suoi primissimi laboratori politici al tema dell’innovazione. I risultati cui gli esperti che hanno partecipato al laboratorio sono pervenuti indicano due tematiche come strategiche per l’immediato futuro: le infrastrutture di rete e il miglioramento dei processi di e-Government. Argomenti assolutamente importanti: non c’e’ innovazione senza infrastrutture; e ciò non costituisce una novità, se è vero che anche la società industriale non si sarebbe sviluppata senza centrali elettriche e sistemi di comunicazione come le ferrovie e le strade. E non c’e’ innovazione senza una pubblica amministrazione moderna, che funzioni bene e non sia un peso per il sistema produttivo.
Ma l’innovazione non è solo questo. L’innovazione ci darà un futuro migliore, ma solo se la curiamo giorno per giorno. Ai telefonini e a Internet succederanno altre novità tecnologiche, che ci permetteranno di fare meglio, in maniera più economica e in minor tempo molte delle cose che oggi ci costano fatica. Innovare significa cambiare il modo in cui le persone lavorano e vivono e come le aziende sono organizzate, alla ricerca di efficienza e di compatibilità negli stili di vita di uomini e donne. Perchè ciò avvenga non bastano le tattiche come quelle sinora delineate, serve una strategia vera e propria, che metta al centro la produzione diffusa di innovazione. Ciò può avvenire solo se si salda stabilmente il rapporto tra centri di ricerca, imprese e pubbliche amministrazioni. Oggi questo rapporto semplicemente non esiste, almeno se si escludono pochi casi di eccellenza che però più che best practices sono oasi nel deserto. I Governi spendono poco, ma soprattutto male, con procedure burocratiche che rendono impossibile innovare davvero; le aziende cercano di conservare allo stremo i propri know how, senza preoccuparsi di incrementarli, e ciò facendo perdono competitività e neanche se ne avvedono; le Università, strangolate da vincoli di bilancio e da una politica miope che non affronta i costi reali della formazione, producono laureati e ricercatori che fuggono nei maggiori laboratori del mondo, dove oltre che il genio trovano anche i mezzi per lavorare.
Chissà, forse il vero Partito che non c’e’ è proprio quello dell’innovazione.
Cultura libera
E’ di qualche giorno fa la notizia che il CNIPA, organizzazione che ha l'obiettivo primario di supportare la pubblica amministrazione nell'utilizzo efficace dell'informatica e contenere i costi dell’azione amministrativa, ha siglato un protocollo di intesa con la Regione Toscana. Scopo dell’accordo è di scambiarsi le esperienze fatte nel campo dell’e-learning e della diffusione di metodologie basate sulle nuove tecnologie per l'aggiornamento professionale dei pubblici dipendenti. La Toscana, infatti, è decisamente in una posizione avanzata in questo settore. Grazie al progetto TRIO (Tecnologie, Ricerca, Innovazione e Orientamento) la Regione mette a disposizione, gratuitamente previa registrazione, un portale dal quale è possibile fruire di oltre mille corsi di formazione, che vanno dall’informatica alle lingue, sino all’ambiente e al terzo settore. E’ un patrimonio di conoscenze rilevanti, spesso finanziate con fondi pubblici, che è quindi assolutamente logico e giusto che tornino, come formazione continua, ai cittadini.
Per alcuni versi TRIO segue la falsariga del progetto Open Courseware iniziato nel 1999 dal prestigioso Massachusett Institute of Technology. Anche in quel caso, infatti, sono a disposizione online, senza neanche la formalità della registrazione, tutti i materiali didattici preparati dai docenti del MIT (in qualche caso persone che hanno preso il premio Nobel per i loro corsi regolari.
Il modello della cultura libera è senza dubbio la strada giusta da perseguire, e dimostra la validità dei modelli di condivisione nati originariamente attorno alle comunità hacker. Anche nell’open courseware, infatti, chi mette a disposizione i propri materiali lo fa per tre motivi: ottenere un riconoscimento della sue competenze dalla comunità, salvaguardare le proprietà intellettuali, grazie all’esistenza della licenza Creative Commons, che tutela il diritto d’autore anche in assenza di transazioni commerciali e costi, e infine donare qualcosa al mondo di chi è escluso dai processi formativi.
A quando un progetto di cultura libera in Italia che coinvolga almeno le organizzazioni pubbliche che producono o acquistano formazione a distanza?
E’ di qualche giorno fa la notizia che il CNIPA, organizzazione che ha l'obiettivo primario di supportare la pubblica amministrazione nell'utilizzo efficace dell'informatica e contenere i costi dell’azione amministrativa, ha siglato un protocollo di intesa con la Regione Toscana. Scopo dell’accordo è di scambiarsi le esperienze fatte nel campo dell’e-learning e della diffusione di metodologie basate sulle nuove tecnologie per l'aggiornamento professionale dei pubblici dipendenti. La Toscana, infatti, è decisamente in una posizione avanzata in questo settore. Grazie al progetto TRIO (Tecnologie, Ricerca, Innovazione e Orientamento) la Regione mette a disposizione, gratuitamente previa registrazione, un portale dal quale è possibile fruire di oltre mille corsi di formazione, che vanno dall’informatica alle lingue, sino all’ambiente e al terzo settore. E’ un patrimonio di conoscenze rilevanti, spesso finanziate con fondi pubblici, che è quindi assolutamente logico e giusto che tornino, come formazione continua, ai cittadini.
Per alcuni versi TRIO segue la falsariga del progetto Open Courseware iniziato nel 1999 dal prestigioso Massachusett Institute of Technology. Anche in quel caso, infatti, sono a disposizione online, senza neanche la formalità della registrazione, tutti i materiali didattici preparati dai docenti del MIT (in qualche caso persone che hanno preso il premio Nobel per i loro corsi regolari.
Il modello della cultura libera è senza dubbio la strada giusta da perseguire, e dimostra la validità dei modelli di condivisione nati originariamente attorno alle comunità hacker. Anche nell’open courseware, infatti, chi mette a disposizione i propri materiali lo fa per tre motivi: ottenere un riconoscimento della sue competenze dalla comunità, salvaguardare le proprietà intellettuali, grazie all’esistenza della licenza Creative Commons, che tutela il diritto d’autore anche in assenza di transazioni commerciali e costi, e infine donare qualcosa al mondo di chi è escluso dai processi formativi.
A quando un progetto di cultura libera in Italia che coinvolga almeno le organizzazioni pubbliche che producono o acquistano formazione a distanza?
Musica incatenata
Se la pirateria informatica è un potenziale problema per tutti gli utenti di internet, essa diventa davvero una jattura per le grandi case discografiche. Il diffusissimo formato mp3, infatti, permette di archiviare un intero album musicale nello spazio di pochi megabyte. In un CD di dati entrano una decina di compilation, che possono agevolmente venire poi trasmesse a chiunque nel mondo. Le major, ovvero le case di produzione di maggiori dimensioni, tramite una apposita alleanza, da anni si battono, a volte con espedienti non del tutto lineari, contro la copia dei contenuti protetti. A tal scopo hanno anche, d’accordo alcune software house, sviluppato vari sistemi anticopia, generalmente noti con l’acronimo DRM (Digital Rights Management), che pongono limitazioni alla digitalizzazione della musica, all’ascolto su PC o in apparati diversi dal semplice CD Player. A questa situazione si è ribellato Steve Jobs, patron della Apple, maggiore produttore di lettori di MP3 (gli Ipod) e leader della vendita di musica online. A causa delle protezioni, egli afferma, diviene impossibile vendere tramite internet brani musicali, e in tal modo le major non ostacolano la pirateria, ma finiscono per incentivarla (i sistemi DRM, sostiene Jobs, sono ormai aggirabili dai veri pirati, mentre ostacolano chi vorrebbe comprare regolarmente i brani).
Un multimiliardario quindi che scende in campo in favore dei peones di Internet? Si, ma con alcune avvertenze. Jobs sta spingendo in favore del business di casa, ovviamente. ITunes, il suo servizio di vendita di musica online, ha sinora distribuito solo due milardi di brani, proprio a causa dei DRM. Ma guarda caso per tutti i brani scaricati esiste un blocco tecnologico tra iTunes e iPod, alla faccia della libera concorrenza. Altroconsumo, che ha recentemente presentato una petizione per la modifica della legge in Italia sui diritti di autore ha fatto notare che se Jobs vuole veramente fare qualcosa in favore delle legittime pretese dei consumatori deve dare un segnale concreto, iniziando a vendere sulla piattaforma iTunes musica degli artisti indipendenti e non legati alle major.
Ma la musica, che con internet si voleva libera come mai è finita in catene?
Se la pirateria informatica è un potenziale problema per tutti gli utenti di internet, essa diventa davvero una jattura per le grandi case discografiche. Il diffusissimo formato mp3, infatti, permette di archiviare un intero album musicale nello spazio di pochi megabyte. In un CD di dati entrano una decina di compilation, che possono agevolmente venire poi trasmesse a chiunque nel mondo. Le major, ovvero le case di produzione di maggiori dimensioni, tramite una apposita alleanza, da anni si battono, a volte con espedienti non del tutto lineari, contro la copia dei contenuti protetti. A tal scopo hanno anche, d’accordo alcune software house, sviluppato vari sistemi anticopia, generalmente noti con l’acronimo DRM (Digital Rights Management), che pongono limitazioni alla digitalizzazione della musica, all’ascolto su PC o in apparati diversi dal semplice CD Player. A questa situazione si è ribellato Steve Jobs, patron della Apple, maggiore produttore di lettori di MP3 (gli Ipod) e leader della vendita di musica online. A causa delle protezioni, egli afferma, diviene impossibile vendere tramite internet brani musicali, e in tal modo le major non ostacolano la pirateria, ma finiscono per incentivarla (i sistemi DRM, sostiene Jobs, sono ormai aggirabili dai veri pirati, mentre ostacolano chi vorrebbe comprare regolarmente i brani).
Un multimiliardario quindi che scende in campo in favore dei peones di Internet? Si, ma con alcune avvertenze. Jobs sta spingendo in favore del business di casa, ovviamente. ITunes, il suo servizio di vendita di musica online, ha sinora distribuito solo due milardi di brani, proprio a causa dei DRM. Ma guarda caso per tutti i brani scaricati esiste un blocco tecnologico tra iTunes e iPod, alla faccia della libera concorrenza. Altroconsumo, che ha recentemente presentato una petizione per la modifica della legge in Italia sui diritti di autore ha fatto notare che se Jobs vuole veramente fare qualcosa in favore delle legittime pretese dei consumatori deve dare un segnale concreto, iniziando a vendere sulla piattaforma iTunes musica degli artisti indipendenti e non legati alle major.
Ma la musica, che con internet si voleva libera come mai è finita in catene?
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