martedì, luglio 06, 2010

Estetica dei posti di lavoro
Di Patrizio Di Nicola

1.
C’era un tempo in cui il luogo di lavoro veniva rappresentato nella forma di ciminiere, altiforni e linee di assemblaggio. Il mondo industriale, popolato di un proletariato in tute di lavoro blu, viveva 10 o 12 ore in moderne caverne, afose e senza luce, al servizio di macchine che non potevano fermarsi mai. William Blake, il visionario poeta e pittore inglese vissuto a cavallo tra ‘700 e ‘800, in alcuni versi famosi raffigura gli opifici dell’epoca come "oscure fabbriche di Satana", caotici antri infernali, avvolti di fumo, nei quale personaggi senza anima trascorrono una grama esistenza seguendo una filosofia meccanicistica che negava il sacro e ogni forma di bellezza e di astrazione .
La “rivoluzione manageriale”, guidata da Taylor e Ford agli inizi del ‘900, si incarica di razionalizzare il lavoro, facendo in modo che le macchine siano sempre in funzione alla massima velocita’ consentita. A tal scopo, bisogna trovare modi nuovi di lavorare, che costringano i lavoratori ad uno sforzo continuo, uniforme e specializzato. Nasce in tal modo la catena di montaggio, e le fabbriche automobilistiche cambiano volto. Da una struttura “ad isola”, ove ogni automobile stava ferma e veniva assemblata da una squadra di operai che svolgevano le lavorazioni più diverse sul suo simulacro, si passa ad una struttura lineare, ove la scocca da assemblare si muove appesa a dei ganci che pendono da un binario sul soffitto e si ferma davanti agli operai, che distribuiti su un percorso a zig-zag attendono di fare la singola operazione che viene loro assegnata da una divisione del lavoro tanto rigida quanto, almeno apparentemente, scientifica. Ad ognuno è concessa un’operazione che dura meno di un minuto, da ripetere migliaia di volte al giorno. Nel 1925 allo stabilimento Ford bastano 10 secondi per produrre un’intera automobile, e il prezzo di vendita si riduce da 850 a 295 dollari. All’operaio francese Luis Ferdinand Céline, capitato nelle sue peregrinazioni americane proprio alla Ford, quel sistema organizzativo sembrò subito folle, ma il lavoro era ben retribuito e forse per questo sopportabile, almeno per brevi periodi . Una vena di follia, neanche troppo velata, si introduce nel mondo del lavoro, e per sempre ci resterà, condizionandone la logica e naturalmente l’apparenza estetica.

2.
Il sistema della catena di montaggio, oltre a diffondersi molto rapidamente in tutte le fabbriche automobilistiche, colonizza ben presto gli uffici, ove serve un nuovo modo di lavoro per organizzare eserciti di impiegati esecutivi che gestiscono la produzione di massa, registrando su migliaia di schede vendite, guadagni, tasse da pagare, salari, e quant’altro. La struttura degli uffici è perlopiù duale: da una parte i pochi manager dispongono di uffici singoli, spaziosi e confortevoli. Al contrario, masse di impiegati vengono stipati in enormi stanzoni, dietro scrivanie rigidamente standardizzate e impersonali, quasi completamente occupate da macchine da scrivere, calcolatrici e tabulatrici. Eppure qualcosa, nel processo di massificazione del lavoro, non sembra funzionare. Lo scoprono, quasi causalmente, un team di ricercatori guidati da Elton Mayo, che a cavallo tra gli anni Venti e Trenta svolgono una serie di esperimenti di illuminotecnica presso lo stabilimento della Western Electric ad Hawthorne, Chicago. Nel tentativo di dimostrare che la produttività del lavoro dipendeva dalla buona illuminazione ambientale, i ricercatori isolarono un gruppo di operaie addette all’assemblaggio di relè elettrici, spostandole da un capannone comune a una stanza appositamente attrezzata. Iniziarono quindi per alcuni giorni ad aumentare l’intensità della luce, ottenendo, come previsto, un incremento della produzione. Poi invertirono un processo peggiorando l’illuminazione. Con stupore, i ricercatori si accorsero che la produttività, anziché ridursi, continuava ad aumentare. L’aumento della produttività dei lavoratori, quindi, non dipendeva dall’illuminazione, ma da un fenomeno sociale: le operaie ripagavano in questo modo l’essere state oggetto di particolari attenzioni da parte della direzione e dei ricercatori. Nasceva in questo modo quella che sarà poi conosciuta come “Scuole delle Relazioni Umane”: una teoria che affermava che la cura dei rapporti sociali in fabbrica poteva innalzare la produzione meglio di tante innovazioni tecniche. D’altra parte, però, l’effetto Hawthorne dimostra anche quanto sia importante l’ambiente fisico di lavoro: passando da un contesto spersonalizzante (la stanza comune) a uno più racchiuso e intimo le operaie sperimentavano una gratificazione personale, e si comportavano di conseguenza, aumentando la produttività “per meritare” tali attenzioni.


3.
Tra le invenzioni più fortunate nella storia del layout interno delle organizzazioni vi è senza dubbio l’Open Space: una struttura fisica degli uffici che ha come elemento minimo il cosiddetto “cubicolo”: uno spazio personale estremamente limitato, circondato da bassi elementi modulari che separano i lavoratori gli uni dall’altro, senza pero’ arrivare a nascondere completamente l’impiegato che vi lavora all’interno. Il termine viene dal latino cubiculum, che indicava originariamente la camera da letto ed è stata adottata in inglese sin dal 15° secolo per indicare le stanze piccole di qualsiasi genere, nonché le aree di lettura nelle biblioteche. Il cubicolo rappresenta, nell’immaginario collettivo, l’idea stessa di ufficio spersonalizzante, ove molti impiegati – come in una catena di montaggio riservata al lavoro intellettuale - lavorano l’uno affianco all’altro, senza vedersi, ma sentendosi in una pressoché completa mancanza di privacy e con enormi problemi di concentrazione. Il primo prototipo dell’open space viene proposto nel 1965 da Robert Propst, un designer della Herman Miller di Zeeland, nel Michigan ed entra in produzione nel 1968, conquistando premi un po’ in tutto il mondo, sino ad approdare al MOMA di New York. L’ideatore di questo sistema lo aveva battezzato Active Office, in quanto doveva aumentare la produttività, il confort e, riducendo la sedentarietà tipica degli uffici chiusi, favorire la circolazione (del sangue) degli impiegati. Diventerà invece un meccanismo perverso, usato dalle imprese per ridurre al minimo lo spazio necessario per ciascun dipendente, ottimizzando all’estremo l’uso delle superfici aziendali. Raccontato mirabilmente dalle argute vignette di Dilbert , l’open space fu disconosciuto dal suo stesso inventore. Propst, nel 2000, poco prima di morire, disse chiaramente che la sua invenzione si era ormai evoluta in maniera perversa, aumentando la corsa delle imprese verso quella che egli definì una "monolithic insanity”. E peggiorando le condizioni di vita dei dipendenti, che ormai iniziavano a soffrire di stress “da cubicolo”.


4.
Con l’avvento delle ICT, i posti di lavoro sono investiti da una ulteriore tempesta di innovazioni. Le scrivanie si ingombrano di monitor, tastiere e stampanti, mentre il lavoro diventa sempre più virtualizzato. Il proprio collega di cubicolo e quello di lavoro si scindono, nel senso che si può lavorare per un capo essendo fisicamente in una sede diversa, o addirittura in un albergo durante uno spostamento di lavoro. I telefoni cellulari, che rendono gli individui sempre raggiungibili, li costringono anche a una disponibilità globale verso il lavoro (o almeno verso il capo). Nasce, quasi contemporaneamente ai primi personal computer, l’idea di telelavorare, cioè di sfruttare le tecnologie che trattano e trasmettono informazione per delocalizzare i lavoratori, facendoli lavorare da casa. I vantaggi sono molti: i telelavoratori, sottratti agli uffici – catena di montaggio, recuperano una loro individualità e diventano più produttivi, in molti casi sino al 30%. Si riduce lo stress del pendolarismo, e di conseguenza anche l’inquinamento. Ma le aziende, nonostante tutto, sono restie a sposare in pieno il nuovo paradigma offerto dal telelavoro, in quanto esso richiede un ripensamento dei modelli organizzativi. Nel telelavoro, infatti, bisogna fidarsi del lavoratore più che controllarlo e contrattare il carico di lavoro più che imporlo. Ciò mette in discussione il tradizionale potere esercitato da molti manager: senza un ripensamento del ruolo dei capi, se ne mina lo status, ovvio che ci siano reazioni contro il telelavoro, tanti forti quanto sotterranee.
Le aziende che invece sposano i nuovi metodi di lavoro sviluppano un’estetica nuova degli uffici, quella virtuale. Il paradigma emergente e’ quello dell’Hotelling: l’azienda ha un numero ridotto di scrivanie rispetto ai dipendenti, e chi ha bisogno di recarsi in ufficio deve prenotare online il posto di lavoro, la sala riunione, la segretaria. In tal modo si ha riduzione dell’occupazione degli spazi ed ottimizzazione delle risorse, e le aziende possono riutilizzare le aree dismesse per creare zone di condivisione delle conoscenze e di formazione, oppure fitness center per il relax; alcune, semplicemente, tagliano le spese e chiudono sedi non più utilizzate.
Ma il nuovo modo di lavorare permesso dalle tecnologie ha anche un rischio potenziale: le persone, se lasciate per troppo tempo a lavorare soli da casa, perdono il senso di appartenenza ad una comunita’ aziendale, e si riduce il processo di trasferimento delle conoscenze che sta alla base di molte aziende innovative. Le imprese più attente hanno quindi capito che il telelavoro non può decretare la fine dell’ufficio. I due contesti non possono che integrarsi, sia temporalmente (alcuni giorni si lavora a casa, altri in ufficio, e la distribuzione dipende dal lavoro che ciascuno svolge) sia funzionalmente (a casa si fanno lavori che richiedono maggiore concentrazione, in ufficio si partecipa a riunioni e a lavori di gruppo).
Insomma un nuovo mondo si è aperto. Come sempre, le aziende più veloci ad adattarsi alle mutate condizioni ne godranno i benefici maggiori. E’ sempre successo così, è la storia dell’industria, e nessuno ci può fare nulla.

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