sabato, gennaio 13, 2007

Spazi aperti

Di Patrizio Di Nicola

Ciascuno di noi, andando in ufficio, sogna di lavorare in uno spazio aperto, magari con visioni celestiali: prati verdi, papaveri rossi, dune di sabbia e scogliere incontaminate. Invece, al massimo, abbiamo davanti un muro. Se siamo fortunati sul muro c’e’ un poster o un quadro. Se la sfortuna ci perseguita, sul poster c’e’ scritto qualcosa relativamente alla nostra produttività. L’idea di cambiare questo stato di cose “buttando giù i muri dell’ufficio” venne, all’inizio degli anni Sessanta, a un designer americano, Robert Propst, che immaginò l’ufficio come un open space: non più muri alti sino al soffitto, ma bassi pannelli che chiudono gli spazi individuali quel tanto che basta per garantire la privacy durante le fasi di lavoro “a testa bassa”, ma che al contempo garantiscono, una volta in piedi, il contatto con gli altri. Una ottima idea, a prima vista: aumenta la socialità, ma salvaguardia la necessità di concentrazione. Solo che le aziende, sempre più attente ai risparmi che alla qualità della vita degli individui, hanno colto l’idea per concentrare in spazi sempre più piccoli (e rumorosi) centinaia di impiegati. L’open space, infatti, è oggi associato, più che all’idea di movimento (questa la filosofia proposta da Propst nel 1968 con il nome Action Office) a quella di cubicolo: uno spazio minimo ed ottimizzato, ove al dipendente è chiesto di lavorare in maniera impersonale e standardizzata. Wired, la nota rivista americana profeta della Net Economy, dice che i cubicoli "sono appena più ampi di una bara e appena più piccoli di una cella di San Quintino". Quindi un posto ottimale per farci lavorare un knowledge worker in attesa di renderlo milionario grazie alle stock option? Peccato che poi questo si senta poco o nulla diverso da un pollo in batteria. Che magari sforna uova d’oro per gli azionisti della sua impresa. I quali davvero veleggiano tra mari incontaminati e spiagge dorate.

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