sabato, ottobre 16, 2010

Giovani e identità nel lavoro.
Di Patrizio Di Nicola (pubblicato su Rassegna Mese)

1.
Secondo l’Eurostat, a luglio 2010, il tasso di disoccupazione nell’area dell’Euro è arrivato al 10% (+0,4 rispetto ad un anno prima). Si tratta di quasi 16 milioni di disoccupati, con una crescita in soli 12 mesi di 668 mila unità. Il tasso di disoccupazione femminile è al 10,3%, mentre quello dei giovani sino a 25 anni è quasi il doppio della media: 19,6% . Ancora più squilibrata la situazione italiana; seppur il tasso di disoccupazione complessivo sia più basso (8,4%) rispetto alla media europea – e ciò soprattutto grazie al massiccio ricorso alla Cassa Integrazione Ordinaria e Straordinaria che evita i licenziamenti rapidi cui si assiste negli altri Paesi- per i giovani italiani le cose vanno peggio che altrove. Essi sono disoccupati nel 26,8% dei casi, spesso sono tanto scoraggiati da non provare neanche più a cercare un lavoro, e tra le donne in età lavorativa, ciò porta il tasso di inattività al 49%. Ha fatto scalpore la statistica diffusa dell’Istat prima delle vacanze estive, che ha rivelato che in Italia vi sono circa 2 milioni di giovani sino a 30 anni in una sorta di limbo attendista, che non lavorano né studiano (o meglio che sono in attesa di un altro lavoretto o di entrare in un nuovo corso finanziato dall’UE). Insomma, l’evidenza è davanti a tutti: la crisi economica che flagella il mondo da oltre due anni ha delle vittime “privilegiate”. Sono i giovani, e in particolare le giovani donne e chi è più scolarizzato.

2.
I giovani italiani, va ricordato, non sono soltanto colpiti da una surplus di disoccupazione, ma sono anche destinatari dei lavori precari nati a seguito delle riforme del mercato del lavoro susseguitesi dal 1996 in poi. Le quali, se da un lato hanno favorito l’aumento – come constatiamo oggi solo transitorio – delle possibilità di trovare un impiego, dall’altro lato hanno peggiorato le condizioni dei lavori a loro destinati, che in confronto a quelli dei padri sono più saltuari, meno retribuiti, con una quasi nulla protezione contro i licenziamenti. In fin dei conti gli esperti parlano di mercato del lavoro duale proprio per queste ragioni. A qualcuno è stato offerto un lavoro a tempo indeterminato, garantito e protetto da una rete sociale; ad altri sono andati i lavori a termine, più o meno fantasiosamente denominati. Tra i collaboratori parasubordinati che hanno iniziato la loro attività nel 2007 (secondo l’INPS sono 583 mila persone), ad esempio, ben il 47% sono giovani sotto i 30 anni, per il 55% donne, e nel 80% dei casi non hanno altri redditi se non quelli di collaborazione, che non superano i 1000 euro al mese per gli uomini e i 700 per le donne. Ma i parasubordinati sono soltanto una faccia della medaglia: oltre a loro vi sono i lavoratori interinali, quelli a chiamata, quelli dipendenti ma a tempo determinato, i cosiddetti professionisti che però hanno un unico committente nell’anno, ed infine gli stagisti che neanche sono retribuiti. In totale, prima della crisi, erano 2,5 milioni di persone. Oggi molti di meno: l’80% dei 500 mila posti di lavoro persi in Italia nel 2009 erano i loro. In fin dei conti le aziende hanno scoperto che invece che licenziare è preferibile assumere a termine: una contrazione degli organici rapida, economica, senza rischi legali. Anche se ciò che si sta consumando è una intera generazione, e il loro rapporto con il lavoro tout-court. Per secoli la risposta alla domanda “Che lavoro fai?” ha permesso di identificare con precisione il ruolo di un individuo nella società. Oggi non è più così, e non è un bene, in quanto gli indicatori di ruolo che hanno sostituito il fattore lavoro non sono certo migliori.

3.
La storia della relazione tra identità e lavoro comincia idealmente nel sedicesimo secolo e termina alla fine del novecento, quando la società post-industriale, travolta dalla globalizzazione, si trova a fare i conti con la perdita di valore positivo del lavoro. Alle origini il lavoro, soprattutto quello manuale, era considerato un’attività imposta all’uomo per l’espiazione del peccato originale, e l’idea che il lavoro fosse una punizione divina resta integra per molti secoli, sino a che nel 540 le “regole” di Benedetto da Norcia dettarono, per i frati nei monasteri, l’alternanza tra lavoro e preghiera, attribuendo così per la prima volta al lavoro manuale una valenza positiva. La piena affermazione della positività del lavoro si ha soltanto nel sedicesimo secolo, con la Riforma Protestante, e in particolare con il Calvinismo. Per Max Weber è proprio tale dottrina, che mette l’accento sul duro lavoro e il successo individuale per la gloria di Dio, che pone le basi per la valorizzazione dell’operosità, costituendo l’enclave ideale in cui il capitalismo moderno si svilupperà.
Supportata anche dalle filosofie illuministe, la valorizzazione del lavoro si allarga su basi sempre più solide sino alla rivoluzione industriale. In questo periodo, però s’innesca una dualizzazione dell’idea del lavoro: da una parte il l’intrapresa -attività nobile che l’uomo svolge con orgoglio- dall’altra il lavoro come povertà, generato dal nascente capitalismo industriale, avido di manodopera non qualificata. Nella grande fabbrica non c’è più bisogno di artigiani provetti, ma di operai – spesso donne e bambini - destinati a lavorare a macchine sempre più sofisticate, con paghe che consentono a malapena di sopravvivere- Ciò da luogo alle prime riflessioni sulla necessità di attuare programmi sistematici di carità pubblica per alleviare le infime condizioni di vita del nascente proletariato. E’ con l’avvento del socialismo scientifico che il lavoro assume una forte connotazione identitaria positiva. Marx ed Engels basano la contrapposizione tra capitale e lavoro sulla razionalità economica; quindi non sull’utopia dell’uguaglianza, bensì sul rapporto di forza tra chi produce il plusvalore – i lavoratori - e chi se ne appropria – i capitalisti. Con il socialismo il lavoro diviene, per dirla con Accornero, una vera e propria ideologia: il proletariato non è più costituito da una massa di poveri costretti a lavorare in condizioni misere e da assistere con le leggi sulla povertà; esso si trasforma in un classe consapevole della propria forza, da esercitare tramite sindacati e partiti. Gli operai non vengono più percepiti come poveri costretti a vendere la propria forza lavoro in quanto privi di mezzi di produzione, ed iniziano a promuovere rivendicazioni “moderne”: si lotta per una retribuzione migliore, per imporre il limite di otto ore di lavoro, per avere tempo per aggiornarsi e perfezionarsi. Soprattutto si vuole conquistare il potere politico. In questa fase il valore identitario del lavoro aumenta fino a diventare quasi un paradigma e l’essere lavoratore diventa la base di una ideologia e di un’identità estremamente positiva. In poco più di 200 anni si è rovesciata completamente l’idea che l’attività lavorativa sia una sofferenza imposta per espiare un peccato; il lavoro diventa prima un processo economico, poi una identità collettiva per una massa crescente di individui. L’identificazione con la propria attività prosegue anche quando il lavoro subisce il processo di dequalificazione seguito all’avvento del taylor-fordismo: una grande operazione messa in atto da ingegneri e industriali all’inizio del ‘900 per trasferire alle direzioni le competenze degli operai e impiantare un sistema produttivo completamente nuovo in cui il lavoro dell’uomo è funzione delle macchine. Con questo nuovo sistema produttivo si mina alla base l’aristocrazia operaia, ma per contro nasce la consapevolezza di essere una massa omogenea di lavoratori, senza grandi competenze professionali, che restando unita può reagire al potere delle direzioni riuscendo a mantenere un elevato potere di controllo sulla produzione. Si innesca in tal modo una spirale che aumenta la capacità del lavoro, anche di quello operaio, di creare identità e riconoscimento sociale.

4.
Negli anni ottanta il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale rompono questo schema. A causa del prolungarsi degli studi i giovani entrano più tardi nel mercato del lavoro e in numero crescente evitano accuratamente la fabbrica; la classe operaia sogna per i propri figli un futuro medio-borghese, un impiego in banca o negli uffici pubblici e rivendica una mobilità sociale fino ad allora negata. Le aspettative di promozione sociale poggiano ora sull’acquisizione di cultura e sullo studio, ma il sistema economico stenta a rinnovarsi, ad assorbire le nuove competenze professionali dei giovani e a garantire loro un inserimento duraturo in azienda. La disoccupazione giovanile contrassegna gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, mentre il lavoro precario caratterizza i 15 anni più recenti. Tutto ciò mina alla base la capacità del lavoro di fornire una identità sociale duratura. Nasce quindi, per i giovani, la necessità di costruire le proprie identità in altri luoghi e contesti, reali, o virtuali. Zygmut Bauman è tra i primi a sostenere il passaggio di massa dall’etica del lavoro all’estetica del consumo: se il primo ha perso la sua capacità di generare un posizionamento nella società, tanto vale cercare altrove la propria identità. E le giovani generazioni si adeguano. Come biasimarli: in fin dei conti è più semplice riconoscersi nei sogni di fama dei giovani concorrenti del Grande Fratello o con la leggerezza degli “amici di Facebook” che non in un lavoro sottopagato, che dura tre mesi ed è completamente avulso dagli studi svolti e dai propri sogni. Così, anche gli 80 euro guadagnati ascoltando un colonnello libico parlare del Corano diventano una occasione come un’altra per sbarcare il lunario: senza convinzione, senza coinvolgimento, senza amore per un universo di lavori che non vogliono farsi amare.

Nessun commento: