domenica, ottobre 24, 2010

Il benessere e il lavoro. Una agenda per le nuove generazioni
Keynote per il Forum Risorse Umane 2010 (21/10/2010)

Patrizio Di Nicola
1.
Henri De Man, sociologo belga e docente presso l'Accademia del Lavoro di Francoforte sul Meno, tra il 1924 e il 1926 svolse una pionieristica ricerca sulla “gioia nel lavoro”, chiedendo ai suoi studenti, tutti lavoratori destinati a dirigere i sindacati dell’epoca, di descrivere i sentimenti che provavano verso il proprio lavoro. Egli ottenne, in tal modo, uno spaccato dei problemi tipici dell'operaio dell'industria, le sue insoddisfazioni, la sua "alienazione latente".
L'analisi di De Man parte dall'assunto che, benché possa sembrare che vi sia "uno stato di equilibrio instabile, di tensione, tra fattori dei quali taluni sono favorevoli ed altri sfavorevoli alla gioia nel lavoro" , la realtà è ben diversa, in quanto gli elementi favorevoli in realtà non esistono. Sono presenti, invece, quelli contrari. Da ciò discende che "Ogni lavoratore tende verso la gioia nel lavoro, come ogni uomo tende verso la felicità. La gioia nel lavoro non pretende affatto di venir 'favorita', la sola cosa che importa è che non le siano frapposti ostacoli."
Quali sono oggi gli “ostacoli” che fanno si che il lavoro, per una generazione di giovani, sia motivo di pena anziché di gioia e di soddisfazione?
2.
Precarieta’. La flessibilità, introdotta nella prima metà degli anni Novanta dai gioverni tecnici e di centro sinistra con nobili fini (ridurre la disoccupazione giovanile che nel 1990 sfiorava il 20%; assicurare una copertura pensionistica ai CoCoCo) è diventata una vera piaga sociale. Non per l’intera popolazione (sono infatti precari circa il 20% dei lavoratori, una quota tutto sommato simile in tutta Europa) ma soprattutto per i giovani: oggi, specialmente i giovani scolarizzati, entrano nel 60% dei casi in azienda con un contratto flessibile, e molti vi rimangono per 5-8-10 anni: i lavoratori a progetto con un unico datore di lavoro (sono quasi 850 mila) hanno una età media di 34 anni, ed una retribuzione di 8.122 Euro /anno. A questi giovani, quindi, è stato offerto un lavoro, ma senza nessuna garanzia per il futuro. Gli anni passano ed il lavoro precario non permette di accendere mutui per acquistare case, ed avere un figlio, progettare una famiglia diventa un miraggio. E in questa fase di crisi occupazionale, i primi a perdere il posto sono stati – e senza cassa integrazione – proprio i precari. Poi, ironia della sorte, li chiamiamo “bamboccioni” se abitano in casa con i genitori.
In Italia volevamo rendere il lavoro flessibile, e abbiamo reso precarie le vite dei giovani. Abbiamo inventato la flex-insecurity, di cui dovremmo chiedere il copyright nel mondo.
3.
Disoccupazione. Se il lavoro flessibile/precario era nato per ridurre la disoccupazione giovanile, non si può dire che abbia raggiunto l’obiettivo. La disoccupazione giovanile sfiora oggi in Italia il 30%, a fronte di un tasso medio del 8,7%. Quindi e’ circa 3,3 volte la media. Nel 1993, quando fu introdotta la flessibilita’, la disoccupazione giovanile era all’incirca agli stessi livelli di oggi: 30,2%. Secondo l’Istat oltre due milioni di giovani, terminati gli studi, non hanno avuto alcuna esperienza di lavoro di durata superiore ai tre mesi. Il 60 per cento di questo gruppo è rappresentato da donne e giovani del Mezzogiorno. Inoltre, meno di un giovane su tre trova un lavoro entro 12 mesi dal termine degli studi. In definitiva, seppur oggi il lavoro dei giovani sia – grazie alla flessibilità - contrattualmente più conveniente che non alla fine degli anni Ottanta, molti di essi rimangono comunque in “dolce e inutile attesa” per anni.
4.
Inefficienza dei canali di ingresso al lavoro. L’Italia, nei 20 anni passati, ha riformato profondamente i Servizi pubblici per l’Impiego, aprendo ai privati, e ristrutturando il sistema del collocamento, anche creando un “borsa telematica del lavoro”. Con risultati risibili sotto il profilo dell’efficienza. L’Istat fa notare che la maggior parte dei primi ingressi nel mercato del lavoro avviene, grazie alle conoscenze dirette: circa il 55 per cento dei giovani trova la prima occupazione attraverso le segnalazioni di parenti e amici; molti altri fanno da sé: il 16,6% inviando curriculum visitando un datore di lavoro, il 6,8% usa internet e il web. I Centri per l’Impiego trovano lavoro a 1,5% dei giovani disoccupati (nel 1990 il dato era del 3%), le Agenzie private per il lavoro al 3,1%. Un po’ meglio fanno le Università: 3,8%. Specialmente quando mettono in campo servizi integrati come SOUL, il sistema di placement che coinvolge le sette università della Regione Lazio.
5.
Merito e gioventù. In Italia essere giovani è un serio handicap. Nonostante la preparazione professionale che si può avere, nonostante gli studi, nonostante l’impegno, si è destinatari dei lavori meno retribuiti, in una sorta di gavetta che sembra non dover finire mai. Sempre l’Istat ricorda: “Il conseguimento del titolo universitario, come pure di quello secondario superiore, dovrebbe consentire un più ampio ingresso nelle professioni a media e alta specializzazione. In realtà, la mancata corrispondenza tra il titolo di studio e la professione svolta segnala la presenza di fenomeni di sottoinquadramento e sottoutilizzo del capitale umano disponibile. Nel 2009 circa 2,2 milioni giovani fino a 34 anni non più in istruzione laureati e diplomati (il 47,1 per cento del totale) possiede un titolo superiore a quello maggiormente richiesto per svolgere quella professione”. L’inadeguatezza del primo lavoro rispetto al livello di istruzione è diffusa su tutto il territorio nazionale e interessa sia chi ha un lavoro dipendente a tempo indeterminato sia quella atipica. Al di là delle forme contrattuali, è evidente la presenza di un bacino di offerta di lavoro giovanile con inquadramenti non adeguati alle proprie competenze e aspettative.
6.
Emigrazione forzata. Nel contesto appena delineato sembra incomprensibile non la cosiddetta “fuga dei cervelli”, ma il fatto che alcuni cervelli pensanti rimangano in Italia, nonostante tutto. Volano all’estero migliaia di laureati e dottori di ricerca ogni anno, mentre sono ben pochi coloro che tornano indietro. Tra le cause della fuga vi sono tre cause principali: la difficoltà di trovare un lavoro adeguato alle proprie aspettative; il differenziale nelle retribuzioni (all’estero lo stipendio di un buon laureato con Master o PHD è più elevato del 50%); l’ambiente favorevole ai giovani, ai quali vengono subito affidati lavori importanti e sfidanti. Basti a tal scopo ricordare la storia della planetologa Amara Grasp, che dopo il dottorato al Max Planck Institute in Germania decise, tra il 2003 e il 2006, di lavorare al CNR a Frascati. Amara nel luglio 2005 scrisse alla rivista Scienze: “se sapesse che cosa significa tentare una carriera scientifica in Italia, nessuna persona sana di mente accetterebbe l’impiego”. Poi volò a Pasadena, per uno stipendio doppio e un laboratorio quadruplo. E qualche speranza di ottenere un Nobel.
7.
Retribuzioni insufficienti. Se vi è un fatto sulla quale possiamo scommettere qualsiasi cifra è che le retribuzioni italiane siano tra le più basse tra quelle europee. Secondo l’OCSE un italiano medio guadagna 21.374 dollari (14.700 €) ogni anno, trovandosi al 23° posto tra i 30 paesi più ricchi del mondo. Meglio di noi stanno i lavoratori del Regno Unito (38.147), Svizzera (36.063), Lussemburgo (36.035), Giappone (34.445), Norvegia (33.413), Australia (31.762), Irlanda (31.337), Paesi Bassi (30.796), Usa (30.774), Germania (29.570), Francia (26.010) e Spagna (24.632). Con percentuali variabili tra il 40 e il 14 % in più. I giovani, i precari, le donne, hanno stipendi notevolmente più bassi rispetto ai valori medi. Secondo gli economisti de La Voce.info ciò dipende sia dalle forte tassazione, sia dalla scarsa produttività tipica del tessuto produttivo italiano, fatto di PMI. Qualunque sia la ragione, ovviamente le basse retribuzioni non aiutano i consumi e la ripresa economica. Henry Ford, nel 1916, decise di ridurre l’orario ad 8 ore, e aumentare lo stipendio a 5 dollari al giorno. Alcuni dissero che era impazzito e sarebbe fallito in pochi mesi. Lui stava solo facendo il suo lavoro di imprenditore, e voleva vendere le auto che produceva anche ai propri operai. Ovviamente quanto detto non si applica ai top manager, che come noto in un giorno incassano quanto un loro dipendente in un anno.
8.
Pessimo uso delle ICT. Nell’ultimo decennio tutti i paesi europei hanno massicciamente investito in nuove tecnologie, in particolare nell’aumento della capacità di internet di trasmettere segnali a larga banda, multimediali e in tempo reale. Ciò ha permesso di sviluppare – tra l’altro – anche il telelavoro, che comporta un aumento della produttività variabile, in funzione delle attività che si svolgono, tra il 15 e il 30 %. Con una riduzione contemporanea del traffico e dell’inquinamento. In Italia il ministro Scajola aveva proposto nel 2009 di finanziare lo sviluppo della rete con 800 milioni. Poi la promessa e’ stata spostata al 2010. Poi ancora al 2011… Nel frattempo rimane in vigore il decreto Pisanu, che dal 2005, con la giustificazione dell’antiterrorismo, ha introdotto una serie di gabbie burocratiche che hanno di fatto bloccato lo sviluppo del WiFi in Italia. Negli Usa, dove certo non sono meno nell’occhio dei terroristi, basta entrare in un bar, una chiesa o altro locale pubblico per collegarsi gratuitamente alla rete.
9.
Tempi e conciliazione. Molti manager, pubblici e privati, non si sono accorti di vivere nella società della conoscenza, e si ostinano a gestire le risorse umane come ai tempi dell’industria e della catena di montaggio. Quindi impongono ai propri dipendenti orari rigidi, e li fanno rispettare a forza di multe per i ritardatari. Per questi manager è facile capire la flessibilità, se si traduce nella possibilità di retribuire di meno i nuovi ingressi in azienda, facendoli lavorare di più o usando metriche lavorative studiate al calcolatore. Perchè non è altrettanto facile parlare di flessibilità quando sono le persone che la chiedono, per poter conciliare i propri tempi di vita con quelli di lavoro? In Italia il part-time e’ offerto da una minoranza di imprese. L’orario flessibile interessa meno del 35% dei lavoratori, e la banca delle ore è attiva nel 1% delle imprese. Addirittura per incentivare la flessibilità serve una legge (art. 9 legge 53 del 2000).

Creare un’esperienza di vita migliore per i giovani non è difficile: basta pensare al futuro dell’Italia anziché soltanto al nostro futuro.

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