domenica, ottobre 24, 2010

Il benessere e il lavoro. Una agenda per le nuove generazioni
Keynote per il Forum Risorse Umane 2010 (21/10/2010)

Patrizio Di Nicola
1.
Henri De Man, sociologo belga e docente presso l'Accademia del Lavoro di Francoforte sul Meno, tra il 1924 e il 1926 svolse una pionieristica ricerca sulla “gioia nel lavoro”, chiedendo ai suoi studenti, tutti lavoratori destinati a dirigere i sindacati dell’epoca, di descrivere i sentimenti che provavano verso il proprio lavoro. Egli ottenne, in tal modo, uno spaccato dei problemi tipici dell'operaio dell'industria, le sue insoddisfazioni, la sua "alienazione latente".
L'analisi di De Man parte dall'assunto che, benché possa sembrare che vi sia "uno stato di equilibrio instabile, di tensione, tra fattori dei quali taluni sono favorevoli ed altri sfavorevoli alla gioia nel lavoro" , la realtà è ben diversa, in quanto gli elementi favorevoli in realtà non esistono. Sono presenti, invece, quelli contrari. Da ciò discende che "Ogni lavoratore tende verso la gioia nel lavoro, come ogni uomo tende verso la felicità. La gioia nel lavoro non pretende affatto di venir 'favorita', la sola cosa che importa è che non le siano frapposti ostacoli."
Quali sono oggi gli “ostacoli” che fanno si che il lavoro, per una generazione di giovani, sia motivo di pena anziché di gioia e di soddisfazione?
2.
Precarieta’. La flessibilità, introdotta nella prima metà degli anni Novanta dai gioverni tecnici e di centro sinistra con nobili fini (ridurre la disoccupazione giovanile che nel 1990 sfiorava il 20%; assicurare una copertura pensionistica ai CoCoCo) è diventata una vera piaga sociale. Non per l’intera popolazione (sono infatti precari circa il 20% dei lavoratori, una quota tutto sommato simile in tutta Europa) ma soprattutto per i giovani: oggi, specialmente i giovani scolarizzati, entrano nel 60% dei casi in azienda con un contratto flessibile, e molti vi rimangono per 5-8-10 anni: i lavoratori a progetto con un unico datore di lavoro (sono quasi 850 mila) hanno una età media di 34 anni, ed una retribuzione di 8.122 Euro /anno. A questi giovani, quindi, è stato offerto un lavoro, ma senza nessuna garanzia per il futuro. Gli anni passano ed il lavoro precario non permette di accendere mutui per acquistare case, ed avere un figlio, progettare una famiglia diventa un miraggio. E in questa fase di crisi occupazionale, i primi a perdere il posto sono stati – e senza cassa integrazione – proprio i precari. Poi, ironia della sorte, li chiamiamo “bamboccioni” se abitano in casa con i genitori.
In Italia volevamo rendere il lavoro flessibile, e abbiamo reso precarie le vite dei giovani. Abbiamo inventato la flex-insecurity, di cui dovremmo chiedere il copyright nel mondo.
3.
Disoccupazione. Se il lavoro flessibile/precario era nato per ridurre la disoccupazione giovanile, non si può dire che abbia raggiunto l’obiettivo. La disoccupazione giovanile sfiora oggi in Italia il 30%, a fronte di un tasso medio del 8,7%. Quindi e’ circa 3,3 volte la media. Nel 1993, quando fu introdotta la flessibilita’, la disoccupazione giovanile era all’incirca agli stessi livelli di oggi: 30,2%. Secondo l’Istat oltre due milioni di giovani, terminati gli studi, non hanno avuto alcuna esperienza di lavoro di durata superiore ai tre mesi. Il 60 per cento di questo gruppo è rappresentato da donne e giovani del Mezzogiorno. Inoltre, meno di un giovane su tre trova un lavoro entro 12 mesi dal termine degli studi. In definitiva, seppur oggi il lavoro dei giovani sia – grazie alla flessibilità - contrattualmente più conveniente che non alla fine degli anni Ottanta, molti di essi rimangono comunque in “dolce e inutile attesa” per anni.
4.
Inefficienza dei canali di ingresso al lavoro. L’Italia, nei 20 anni passati, ha riformato profondamente i Servizi pubblici per l’Impiego, aprendo ai privati, e ristrutturando il sistema del collocamento, anche creando un “borsa telematica del lavoro”. Con risultati risibili sotto il profilo dell’efficienza. L’Istat fa notare che la maggior parte dei primi ingressi nel mercato del lavoro avviene, grazie alle conoscenze dirette: circa il 55 per cento dei giovani trova la prima occupazione attraverso le segnalazioni di parenti e amici; molti altri fanno da sé: il 16,6% inviando curriculum visitando un datore di lavoro, il 6,8% usa internet e il web. I Centri per l’Impiego trovano lavoro a 1,5% dei giovani disoccupati (nel 1990 il dato era del 3%), le Agenzie private per il lavoro al 3,1%. Un po’ meglio fanno le Università: 3,8%. Specialmente quando mettono in campo servizi integrati come SOUL, il sistema di placement che coinvolge le sette università della Regione Lazio.
5.
Merito e gioventù. In Italia essere giovani è un serio handicap. Nonostante la preparazione professionale che si può avere, nonostante gli studi, nonostante l’impegno, si è destinatari dei lavori meno retribuiti, in una sorta di gavetta che sembra non dover finire mai. Sempre l’Istat ricorda: “Il conseguimento del titolo universitario, come pure di quello secondario superiore, dovrebbe consentire un più ampio ingresso nelle professioni a media e alta specializzazione. In realtà, la mancata corrispondenza tra il titolo di studio e la professione svolta segnala la presenza di fenomeni di sottoinquadramento e sottoutilizzo del capitale umano disponibile. Nel 2009 circa 2,2 milioni giovani fino a 34 anni non più in istruzione laureati e diplomati (il 47,1 per cento del totale) possiede un titolo superiore a quello maggiormente richiesto per svolgere quella professione”. L’inadeguatezza del primo lavoro rispetto al livello di istruzione è diffusa su tutto il territorio nazionale e interessa sia chi ha un lavoro dipendente a tempo indeterminato sia quella atipica. Al di là delle forme contrattuali, è evidente la presenza di un bacino di offerta di lavoro giovanile con inquadramenti non adeguati alle proprie competenze e aspettative.
6.
Emigrazione forzata. Nel contesto appena delineato sembra incomprensibile non la cosiddetta “fuga dei cervelli”, ma il fatto che alcuni cervelli pensanti rimangano in Italia, nonostante tutto. Volano all’estero migliaia di laureati e dottori di ricerca ogni anno, mentre sono ben pochi coloro che tornano indietro. Tra le cause della fuga vi sono tre cause principali: la difficoltà di trovare un lavoro adeguato alle proprie aspettative; il differenziale nelle retribuzioni (all’estero lo stipendio di un buon laureato con Master o PHD è più elevato del 50%); l’ambiente favorevole ai giovani, ai quali vengono subito affidati lavori importanti e sfidanti. Basti a tal scopo ricordare la storia della planetologa Amara Grasp, che dopo il dottorato al Max Planck Institute in Germania decise, tra il 2003 e il 2006, di lavorare al CNR a Frascati. Amara nel luglio 2005 scrisse alla rivista Scienze: “se sapesse che cosa significa tentare una carriera scientifica in Italia, nessuna persona sana di mente accetterebbe l’impiego”. Poi volò a Pasadena, per uno stipendio doppio e un laboratorio quadruplo. E qualche speranza di ottenere un Nobel.
7.
Retribuzioni insufficienti. Se vi è un fatto sulla quale possiamo scommettere qualsiasi cifra è che le retribuzioni italiane siano tra le più basse tra quelle europee. Secondo l’OCSE un italiano medio guadagna 21.374 dollari (14.700 €) ogni anno, trovandosi al 23° posto tra i 30 paesi più ricchi del mondo. Meglio di noi stanno i lavoratori del Regno Unito (38.147), Svizzera (36.063), Lussemburgo (36.035), Giappone (34.445), Norvegia (33.413), Australia (31.762), Irlanda (31.337), Paesi Bassi (30.796), Usa (30.774), Germania (29.570), Francia (26.010) e Spagna (24.632). Con percentuali variabili tra il 40 e il 14 % in più. I giovani, i precari, le donne, hanno stipendi notevolmente più bassi rispetto ai valori medi. Secondo gli economisti de La Voce.info ciò dipende sia dalle forte tassazione, sia dalla scarsa produttività tipica del tessuto produttivo italiano, fatto di PMI. Qualunque sia la ragione, ovviamente le basse retribuzioni non aiutano i consumi e la ripresa economica. Henry Ford, nel 1916, decise di ridurre l’orario ad 8 ore, e aumentare lo stipendio a 5 dollari al giorno. Alcuni dissero che era impazzito e sarebbe fallito in pochi mesi. Lui stava solo facendo il suo lavoro di imprenditore, e voleva vendere le auto che produceva anche ai propri operai. Ovviamente quanto detto non si applica ai top manager, che come noto in un giorno incassano quanto un loro dipendente in un anno.
8.
Pessimo uso delle ICT. Nell’ultimo decennio tutti i paesi europei hanno massicciamente investito in nuove tecnologie, in particolare nell’aumento della capacità di internet di trasmettere segnali a larga banda, multimediali e in tempo reale. Ciò ha permesso di sviluppare – tra l’altro – anche il telelavoro, che comporta un aumento della produttività variabile, in funzione delle attività che si svolgono, tra il 15 e il 30 %. Con una riduzione contemporanea del traffico e dell’inquinamento. In Italia il ministro Scajola aveva proposto nel 2009 di finanziare lo sviluppo della rete con 800 milioni. Poi la promessa e’ stata spostata al 2010. Poi ancora al 2011… Nel frattempo rimane in vigore il decreto Pisanu, che dal 2005, con la giustificazione dell’antiterrorismo, ha introdotto una serie di gabbie burocratiche che hanno di fatto bloccato lo sviluppo del WiFi in Italia. Negli Usa, dove certo non sono meno nell’occhio dei terroristi, basta entrare in un bar, una chiesa o altro locale pubblico per collegarsi gratuitamente alla rete.
9.
Tempi e conciliazione. Molti manager, pubblici e privati, non si sono accorti di vivere nella società della conoscenza, e si ostinano a gestire le risorse umane come ai tempi dell’industria e della catena di montaggio. Quindi impongono ai propri dipendenti orari rigidi, e li fanno rispettare a forza di multe per i ritardatari. Per questi manager è facile capire la flessibilità, se si traduce nella possibilità di retribuire di meno i nuovi ingressi in azienda, facendoli lavorare di più o usando metriche lavorative studiate al calcolatore. Perchè non è altrettanto facile parlare di flessibilità quando sono le persone che la chiedono, per poter conciliare i propri tempi di vita con quelli di lavoro? In Italia il part-time e’ offerto da una minoranza di imprese. L’orario flessibile interessa meno del 35% dei lavoratori, e la banca delle ore è attiva nel 1% delle imprese. Addirittura per incentivare la flessibilità serve una legge (art. 9 legge 53 del 2000).

Creare un’esperienza di vita migliore per i giovani non è difficile: basta pensare al futuro dell’Italia anziché soltanto al nostro futuro.

sabato, ottobre 16, 2010

Sindacato e mal di Internet
Di Patrizio Di Nicola


Nell’ultimo quarto di secolo in molti Paesi avanzati si è assistito a crescenti difficoltà nell’azione sindacale, con conseguente riduzione della rappresentatività sociale e in parte anche dell’influenza sulla scena pubblica. Ovviamente si tratta di esperienze nazionali differenti per intensità del fenomeno e per caratteristiche specifiche dei singoli contesti di riferimento. In alcuni casi si può parlare di una semplice fase di ripiegamento, in altri la tendenza in atto assume i tratti di un vero e proprio declino. Tuttavia, indipendentemente dal diverso grado di intensità, il clima di difficoltà dei sindacati nelle società moderne appare un fenomeno generalizzato.
Recenti studi comparati, che hanno preso in considerazione i Paesi maggiormente rappresentativi delle economie internazionali, offrono una fotografia puntuale sullo stato di salute dei sindacati. In particolare la ricerca di Jelle Visser sulla sindacalizzazione in 24 nazioni , ha realizzato una comparazione del numero di iscritti e dell’andamento dei tassi di sindacalizzazione. La tabella 1, relativa al numero di iscritti tra il 1970 e il 2003, mostra le tendenze del fenomeno. Nel 1980, ben diciassette nazioni presentano un numero di iscritti al sindacato più elevato rispetto al decennio precedente, in alcuni casi un massimo storico (come ad esempio negli Stati Uniti, Italia e Gran Bretagna). L’unica eccezione negativa è rappresentata dalla Francia, che al contrario in quei 10 anni di crescita generalizzata registra un calo nel numero di iscritti.
Gli anni Novanta segnano un’inversione di tendenza e la sindacalizzazione cresce solo in otto nazioni su ventiquattro: Canada, Australia, Corea, Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca, Spagna. In dieci Stati i sindacati hanno perso quote di iscritti (Stati Uniti, Nuova Zelanda, Giappone, Germania, Francia, Italia, Regno Unito, Irlanda, Paesi Bassi, Austria; la situazione del Belgio, pur facendo registrare qualche iscritto in meno, può essere considerata sostanzialmente stabile).
L’ultima decade fa registrare un’ulteriore battuta d’arresto: la sindacalizzazione continua a ridursi o si mantiene pressoché stabile, e gli iscritti aumentano in soli sei Paesi, ossia Norvegia, Danimarca, Olanda, Belgio, Spagna e Germania.





La situazione di difficoltà in cui versano i sindacati si palesa con maggiore evidenza se osserviamo i tassi di sindacalizzazione. Nel 2000, quasi ovunque la densità sindacale ha valori inferiori rispetto al 1970 e al 1980. Nei casi dell’Australia, della Nuova Zelanda, degli USA e dell’Austria le percentuali di sindacalizzazione si sono dimezzati nell’arco di trent’anni, e in molti altri casi il calo è stato superiore ai 10 punti. Unica eccezione è rappresentata da un blocco di Paesi che migliorano i già alti tassi di sindacalizzazione: si tratta di Finlandia, Svezia, Belgio, Spagna e, almeno rispetto agli anni Sessanta, anche la Danimarca.
In sostanza appare evidente che i sindacati contemporanei nel decennio appena passato hanno vissuto un momento di seria difficoltà, anche se non dovunque questo si è ripercosso immediatamente sulla capacità di negoziare e di essere riconosciuti dalla controparte e dai Governi.

Il Sindacato Open Source

La rappresentanza sindacale necessita oggi di un rinnovamento per passare da un modello tradizionale di azione in cui informazione, orientamento, discussione e decisione si susseguono secondo una precisa liturgia organizzativa, a un modello reticolare ed orizzontale, più consono al modo di comunicare che utilizzano i giovani lavoratori e le stesse imprese. Internet rappresenta una concreta opportunità per ricostruire i necessari legami sociali tra il sindacato e i lavoratori, compromessi dai processi produttivi di decentramento e flessibilizzazione degli ultimi decenni. Peraltro si tratta di un ritorno alle origini, nel senso che nel sindacato la comunicazione ha sempre avuto un ruolo di primo piano. Lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) ha posto una nuova sfida ai sindacati che si trovano nella condizione di doversi adeguare agli standard comunicativi raggiunti dalle altre organizzazioni e di trasferire le proprie attività e funzioni di rappresentanza sul Web, perseguendo un cambiamento che è riduttivo vivere come eminentemente tecnologico in quanto è soprattutto culturale.
Lo scenario di utilizzo delle ICT da parte del sindacato, in particolare nel nostro Paese, non è ancora ben definito. Le rilevazioni svolte da chi scrive su un campione di sindacati di vari settori e territori hanno dimostrato con chiarezza che il Web viene utilizzato soprattutto come “vetrina informativa”, a volte con linguaggi autoreferenziali, altre volte con logiche giornalistiche, mentre sono rari i tentativi di rendere gli spazi online funzionali all’interazione organizzativa con i lavoratori. In Italia la riflessione intorno al rapporto tra Internet e sindacato stenta a decollare, mentre all’estero il dibattito è ricco e fruttuoso. Ad esempio in Gran Bretagna lo studioso R. Darlington della LSE parlava di e-unions già dal 2000, alla luce della considerazione che in Rete aumenta l’importanza degli intermediari in grado di offrire servizi e coordinamento ai lavoratori. Di qui il suggerimento ai sindacati, di trasformarsi rapidamente in e-unions e fornire servizi digitali agli iscritti . Cosa ovviamente non facilissima, come spiega la ricerca sui sindacati australiani svolto da Sandra Cockfield nel 2003 . La studiosa, dopo aver analizzato oltre 100 siti web di organizzazioni di rappresentanza, conclude che l’uso che essi ne fanno è limitato, e manca una strategia intesa a reclutare e coinvolgere i lavoratori. Cosa, va detto, che sarebbe più facile fare tramite internet che non nei modi tradizionali, almeno quando i lavoratori operano in piccole unità produttive decentrate, se non addirittura in telelavoro, quindi fuori dell’azienda. Nello stesso periodo, Diamond e Freeman , con una lucida quanto anticipatrice analisi individuavano cinque funzioni principali che Internet poteva assolvere per le organizzazioni di rappresentanza:
- Fornire servizi individualizzati agli iscritti;
- Costruire sezioni sindacali virtuali tra le aziende senza rappresentanze organizzate;
- Incrementare i livelli di dibattito e di democrazia interna;
- Divenire uno spazio per nuove forme di conflitto (i cyber strike)
- Favorire la nascita di nuove forme di internazionalismo, collegando sindacati e lavoratori di nazioni diverse


Oggi – mutuando il linguaggio del sistema operativo Linux – si può parlare di Sindacato Open Source , inteso come forma organizzativa che fa un uso intensivo se non esclusivo di internet per informare gli iscritti, ma soprattutto per connettere tra di loro attivisti e delegati di aziende diverse e per fornire ai lavoratori servizi che vanno al di là di quelli legati alla contrattazione collettiva. Il sindacato OS costituisce una comunità virtuale di sindacalisti e lavoratori; proprio come avviene nella vita reale, esso porta avanti campagne di tesseramento, ha leader e militanti, porta avanti lotte e rivendicazioni. Le principali caratteristiche del sindacato OS, messe a confronto con la normale forma sindacale, sono riportate nella tabella 3 che segue.



Come si vede, per il Sindacato OS l’uso di Internet non è inteso come mero affiancamento di un nuovo canale di comunicazione a quelli sinora utilizzati, ma va inteso come innovazione radicale di un modo tradizionale di essere sindacato. In tal senso la Rete serve a creare una dimensione associativa nuova, ove opera una rete sociale di nuovi interessi e iniziative, finalizzato a espandere la copertura sindacale e a fornire servizi agli iscritti vecchi e nuovi.
Ci vorrà molto coraggio, ma probabilmente sarà questa la strada che porterà il sindacato a un maggior radicamento tra i lavoratori post industriali.
Giovani flessibili

L’avvento del lavoro precario ha dato molto da scrivere a commentatori e studiosi, a partire dai “padri” della Sociologia del lavoro, Aris Accornero e Luciano Gallino. In particolare, negli ultimi tempi, sono stati pubblicati dall’editore il Mulino tre volumi dedicati ai “giovani flessibili”. Si tratta di studi accademici, quindi condotti con estremo rigore e metodo. Il primo testo (Coppie flessibili. Progetti e vita quotidiana dei lavoratori atipici, di Luca Salmieri , edito nel 2006) si concentra sulla debolezza delle coppie, tra i 20 e i 40 anni, titolari di rapporti di lavoro flessibile. Il libro analizza la profonda fragilità della loro vita, ma anche la scommessa di stare insieme nonostante i mutui negati, gli stipendi che non permettono di arrivare a fine mese, le difficoltà legate alla disoccupazione sempre incombente. Vivere insieme per queste coppie flessibili è molto difficile: il lavoro viene prima di tutto, bisogna assicurarsi la sopravvivenza e non andare in rosso in banca, per cui è impossibile non lasciarsi coinvolgere dalle pressioni che le aziende esercitano sugli orari e i tempi di consegna dei lavori. Questo porta a sacrificare la sfera affettiva, la maternità, la cura del sé. E mette a rischio la stabilità della coppia. Il secondo volume, scritto nel 2009 da Fabio Berton, Matteo Richiardi e Stefano Sacchi, denuncia sin dal titolo (Flex-insecurity) l’anomalia italiana del lavoro flessibile che diventa precario. In Europa la flessibilità si regge su due gambe: da una parte la prestazione, che può essere a termine e atipica; dall’altra le tutele, che devono essere forti proprio in virtù del “rischio sociale” che la flessibilità comporta. In Italia ciò non è successo, e i lavori flessibili sono stati introdotti senza curarsi dei contrappesi. Per uscire da tale situazione, propongono gli autori, bisogna fare al più presto quattro cose: 1) unificare le aliquote contributive tra i diversi contratti; 2) introdurre il salario orario minimo; 3) prevedere una indennità di fine rapporto a carico delle imprese che non rinnovano il contratto flessibile; 4) riformare gli ammortizzatori sociali per farne beneficiare anche i lavoratori atipici. Quattro proposte semplici, che ovviamente nessuno, al Ministero del Lavoro, ha ascoltato. L’ultimo libro, scritto da Piero Amerio, si concentra sui Giovani al lavoro. Basato su di un campione di 2000 giovani piemontesi, tenta di valutare il lavoro a partire dalle stratificazioni sociali. Così, si scopre che il lavoro è valutato in prima istanza per la sua strumentalità economica, ma esso è per i giovani anche un luogo materiale e simbolico che richiede impegno e fatica, nonché un fatto sociale che può portare problemi e minacce. La precarietà si contrappone alla soddisfazione, e spesso dipende da forti disuguaglianze di base, come il reddito familiare o gli studi svolti. Ma quel che più colpisce è la mancanza di senso del futuro: in una società anziana che li soffoca i giovani autolimitano le proprie aspettative e navigano a vista. In fin dei conti sopravvivere è già un mestiere impegnativo.
Giovani e identità nel lavoro.
Di Patrizio Di Nicola (pubblicato su Rassegna Mese)

1.
Secondo l’Eurostat, a luglio 2010, il tasso di disoccupazione nell’area dell’Euro è arrivato al 10% (+0,4 rispetto ad un anno prima). Si tratta di quasi 16 milioni di disoccupati, con una crescita in soli 12 mesi di 668 mila unità. Il tasso di disoccupazione femminile è al 10,3%, mentre quello dei giovani sino a 25 anni è quasi il doppio della media: 19,6% . Ancora più squilibrata la situazione italiana; seppur il tasso di disoccupazione complessivo sia più basso (8,4%) rispetto alla media europea – e ciò soprattutto grazie al massiccio ricorso alla Cassa Integrazione Ordinaria e Straordinaria che evita i licenziamenti rapidi cui si assiste negli altri Paesi- per i giovani italiani le cose vanno peggio che altrove. Essi sono disoccupati nel 26,8% dei casi, spesso sono tanto scoraggiati da non provare neanche più a cercare un lavoro, e tra le donne in età lavorativa, ciò porta il tasso di inattività al 49%. Ha fatto scalpore la statistica diffusa dell’Istat prima delle vacanze estive, che ha rivelato che in Italia vi sono circa 2 milioni di giovani sino a 30 anni in una sorta di limbo attendista, che non lavorano né studiano (o meglio che sono in attesa di un altro lavoretto o di entrare in un nuovo corso finanziato dall’UE). Insomma, l’evidenza è davanti a tutti: la crisi economica che flagella il mondo da oltre due anni ha delle vittime “privilegiate”. Sono i giovani, e in particolare le giovani donne e chi è più scolarizzato.

2.
I giovani italiani, va ricordato, non sono soltanto colpiti da una surplus di disoccupazione, ma sono anche destinatari dei lavori precari nati a seguito delle riforme del mercato del lavoro susseguitesi dal 1996 in poi. Le quali, se da un lato hanno favorito l’aumento – come constatiamo oggi solo transitorio – delle possibilità di trovare un impiego, dall’altro lato hanno peggiorato le condizioni dei lavori a loro destinati, che in confronto a quelli dei padri sono più saltuari, meno retribuiti, con una quasi nulla protezione contro i licenziamenti. In fin dei conti gli esperti parlano di mercato del lavoro duale proprio per queste ragioni. A qualcuno è stato offerto un lavoro a tempo indeterminato, garantito e protetto da una rete sociale; ad altri sono andati i lavori a termine, più o meno fantasiosamente denominati. Tra i collaboratori parasubordinati che hanno iniziato la loro attività nel 2007 (secondo l’INPS sono 583 mila persone), ad esempio, ben il 47% sono giovani sotto i 30 anni, per il 55% donne, e nel 80% dei casi non hanno altri redditi se non quelli di collaborazione, che non superano i 1000 euro al mese per gli uomini e i 700 per le donne. Ma i parasubordinati sono soltanto una faccia della medaglia: oltre a loro vi sono i lavoratori interinali, quelli a chiamata, quelli dipendenti ma a tempo determinato, i cosiddetti professionisti che però hanno un unico committente nell’anno, ed infine gli stagisti che neanche sono retribuiti. In totale, prima della crisi, erano 2,5 milioni di persone. Oggi molti di meno: l’80% dei 500 mila posti di lavoro persi in Italia nel 2009 erano i loro. In fin dei conti le aziende hanno scoperto che invece che licenziare è preferibile assumere a termine: una contrazione degli organici rapida, economica, senza rischi legali. Anche se ciò che si sta consumando è una intera generazione, e il loro rapporto con il lavoro tout-court. Per secoli la risposta alla domanda “Che lavoro fai?” ha permesso di identificare con precisione il ruolo di un individuo nella società. Oggi non è più così, e non è un bene, in quanto gli indicatori di ruolo che hanno sostituito il fattore lavoro non sono certo migliori.

3.
La storia della relazione tra identità e lavoro comincia idealmente nel sedicesimo secolo e termina alla fine del novecento, quando la società post-industriale, travolta dalla globalizzazione, si trova a fare i conti con la perdita di valore positivo del lavoro. Alle origini il lavoro, soprattutto quello manuale, era considerato un’attività imposta all’uomo per l’espiazione del peccato originale, e l’idea che il lavoro fosse una punizione divina resta integra per molti secoli, sino a che nel 540 le “regole” di Benedetto da Norcia dettarono, per i frati nei monasteri, l’alternanza tra lavoro e preghiera, attribuendo così per la prima volta al lavoro manuale una valenza positiva. La piena affermazione della positività del lavoro si ha soltanto nel sedicesimo secolo, con la Riforma Protestante, e in particolare con il Calvinismo. Per Max Weber è proprio tale dottrina, che mette l’accento sul duro lavoro e il successo individuale per la gloria di Dio, che pone le basi per la valorizzazione dell’operosità, costituendo l’enclave ideale in cui il capitalismo moderno si svilupperà.
Supportata anche dalle filosofie illuministe, la valorizzazione del lavoro si allarga su basi sempre più solide sino alla rivoluzione industriale. In questo periodo, però s’innesca una dualizzazione dell’idea del lavoro: da una parte il l’intrapresa -attività nobile che l’uomo svolge con orgoglio- dall’altra il lavoro come povertà, generato dal nascente capitalismo industriale, avido di manodopera non qualificata. Nella grande fabbrica non c’è più bisogno di artigiani provetti, ma di operai – spesso donne e bambini - destinati a lavorare a macchine sempre più sofisticate, con paghe che consentono a malapena di sopravvivere- Ciò da luogo alle prime riflessioni sulla necessità di attuare programmi sistematici di carità pubblica per alleviare le infime condizioni di vita del nascente proletariato. E’ con l’avvento del socialismo scientifico che il lavoro assume una forte connotazione identitaria positiva. Marx ed Engels basano la contrapposizione tra capitale e lavoro sulla razionalità economica; quindi non sull’utopia dell’uguaglianza, bensì sul rapporto di forza tra chi produce il plusvalore – i lavoratori - e chi se ne appropria – i capitalisti. Con il socialismo il lavoro diviene, per dirla con Accornero, una vera e propria ideologia: il proletariato non è più costituito da una massa di poveri costretti a lavorare in condizioni misere e da assistere con le leggi sulla povertà; esso si trasforma in un classe consapevole della propria forza, da esercitare tramite sindacati e partiti. Gli operai non vengono più percepiti come poveri costretti a vendere la propria forza lavoro in quanto privi di mezzi di produzione, ed iniziano a promuovere rivendicazioni “moderne”: si lotta per una retribuzione migliore, per imporre il limite di otto ore di lavoro, per avere tempo per aggiornarsi e perfezionarsi. Soprattutto si vuole conquistare il potere politico. In questa fase il valore identitario del lavoro aumenta fino a diventare quasi un paradigma e l’essere lavoratore diventa la base di una ideologia e di un’identità estremamente positiva. In poco più di 200 anni si è rovesciata completamente l’idea che l’attività lavorativa sia una sofferenza imposta per espiare un peccato; il lavoro diventa prima un processo economico, poi una identità collettiva per una massa crescente di individui. L’identificazione con la propria attività prosegue anche quando il lavoro subisce il processo di dequalificazione seguito all’avvento del taylor-fordismo: una grande operazione messa in atto da ingegneri e industriali all’inizio del ‘900 per trasferire alle direzioni le competenze degli operai e impiantare un sistema produttivo completamente nuovo in cui il lavoro dell’uomo è funzione delle macchine. Con questo nuovo sistema produttivo si mina alla base l’aristocrazia operaia, ma per contro nasce la consapevolezza di essere una massa omogenea di lavoratori, senza grandi competenze professionali, che restando unita può reagire al potere delle direzioni riuscendo a mantenere un elevato potere di controllo sulla produzione. Si innesca in tal modo una spirale che aumenta la capacità del lavoro, anche di quello operaio, di creare identità e riconoscimento sociale.

4.
Negli anni ottanta il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale rompono questo schema. A causa del prolungarsi degli studi i giovani entrano più tardi nel mercato del lavoro e in numero crescente evitano accuratamente la fabbrica; la classe operaia sogna per i propri figli un futuro medio-borghese, un impiego in banca o negli uffici pubblici e rivendica una mobilità sociale fino ad allora negata. Le aspettative di promozione sociale poggiano ora sull’acquisizione di cultura e sullo studio, ma il sistema economico stenta a rinnovarsi, ad assorbire le nuove competenze professionali dei giovani e a garantire loro un inserimento duraturo in azienda. La disoccupazione giovanile contrassegna gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, mentre il lavoro precario caratterizza i 15 anni più recenti. Tutto ciò mina alla base la capacità del lavoro di fornire una identità sociale duratura. Nasce quindi, per i giovani, la necessità di costruire le proprie identità in altri luoghi e contesti, reali, o virtuali. Zygmut Bauman è tra i primi a sostenere il passaggio di massa dall’etica del lavoro all’estetica del consumo: se il primo ha perso la sua capacità di generare un posizionamento nella società, tanto vale cercare altrove la propria identità. E le giovani generazioni si adeguano. Come biasimarli: in fin dei conti è più semplice riconoscersi nei sogni di fama dei giovani concorrenti del Grande Fratello o con la leggerezza degli “amici di Facebook” che non in un lavoro sottopagato, che dura tre mesi ed è completamente avulso dagli studi svolti e dai propri sogni. Così, anche gli 80 euro guadagnati ascoltando un colonnello libico parlare del Corano diventano una occasione come un’altra per sbarcare il lunario: senza convinzione, senza coinvolgimento, senza amore per un universo di lavori che non vogliono farsi amare.
Web Commerciali, anche troppo.

Non è un mistero per nessuno che il Web è oggetto di attenzioni particolari e di forti conflitti di interesse. Per la gran parte degli utenti, infatti, usare la rete significa principalmente accedere a risorse a costo nullo, o quasi. Sul web si cerca informazione, divertimento, socialità, addirittura software (i cosiddetti Open Source) che possano sostituire i prodotti commerciali. I militari, al contrario, vedono il Web come un importante campo di battaglia, ove combattere battaglie tutt’altro che virtuali intese, generando un caos assoluto, a distruggere i sistemi informativi, di comando, controllo e comunicazione di un’altra nazione. In mezzo si situano le aziende, per le quali il Web dovrebbe costituire, oltre che un importante strumento che supporta l’organizzazione della produzione, anche un fondamentale metodo di relazione con i clienti. Purtroppo sempre più spesso mi accorgo che per le aziende la customer relation sul web significa solo “vendere più prodotti”. Vediamo un paio di esempi. Mi trovo a Milano e decido di anticipare la partenza per Roma. Devo modificare la prenotazione del costoso biglietto che ho acquistato. Nessun problema: l’azienda che gestisce la rete ferroviaria ha preparato una stupenda applicazione per il mio Blackberry che permette di fare proprio questo. Ci provo, ma non funziona, problemi al database. Riprovo l’indomani. Stesso risultato. Non mi perdo d’animo, lo stesso si può fare tramite il web dell’azienda. Ci provo. Inutile, ancora problemi al database. A quel punto telefono al call center dell’azienda, dove senza problemi al database fanno la modifica. Peccato che la telefonata sia costata oltre 4 euro. Con il fai-da-te sul Web sarebbe stato gratuito. Secondo esempio: decido di modificare la configurazione dei canali che ricevo tramite la mia pay TV satellitaria. I clienti lo possono fare online tramite il web. Perfetto. Ma scopro che dal web è molto facile ed intuitivo aggiungere canali, non toglierli. Se spendi di più il web è benvenuto, altrimenti devi passare per un costoso call center. Per inciso, se aggiungi un canale te lo attivano in due minuti, se lo togli ci vuole un mese. Sono solo due esempi, ciascuno di noi ne potrebbe aggiungere altri. Tutti dimostrano che le aziende hanno ormai snaturato completamente il senso del web, rendendolo uno strumento che anziché prendersi cura del cliente cerca di spremerlo al massimo, non sempre in maniera corretta e trasparente.