Toyota: un Fordismo perfetto?
Di Patrizio Di Nicola
Alla base della “scoperta” in Occidente del toyotismo vi è una ricerca, costata alcuni milioni di dollari, svolta da un ampio team di ricercatori del MIT di Boston. La sintesi dello studio, pubblicata in Italia nel 1991 con il titolo La macchina che ha cambiato il mondo (gli autori erano James Womack, Daniel Jones e Daniel Roos ; la prefazione addirittura di Giovanni Agnelli) sosteneva la supremazia del metodo Toyota rispetto alla produzione di massa in uso in Occidente. Il metodo messo a punto in Giappone presentava molti punti di forza: permetteva grande flessibilità, riduceva gli scarti e migliorava la qualità. Al contempo, secondo gli autori, gli operai diventavano più specializzati e venivano coinvolti nei processi produttivi e di miglioramento; in una parola, acquisivano un maggior potere facendo un lavoro meno alienante. La “bibbia” delle lean production fu immediatamente assunta da imprenditori, consulenti aziendali e giornalisti di settore, che accettarono con entusiasmo il nuovo sistema, d'altronde sicuramente più moderno ed accattivante del vecchio taylor-fordismo. Passarono quindi sotto silenzio le documentate voci che da alcune università e giornali d’inchiesta guardavano al nuovo metodo produttivo con preoccupazione. Nel 1990 i giornalisti Joseph e Suzy Fucini , dopo una indagine nello stabilimento americano della Mazda durata due anni e 150 interviste (Working for the Japanese: Inside Mazda's American Auto Plant, Free Press, 1992), giungono alla conclusione che non tutto era così positivo come la retorica aziendale voleva mostrare. Per i lavoratori molti dei problemi aperti dalla produzione di massa rimanevano attuali, se non aggravati. I due ricercatori, che nonostante fossero tutt'altro che radicali nei loro giudizi furono osteggiati dalla direzione dell'azienda, individuarono con chiarezza i lati oscuri del lavorare «alla giapponese». Anzitutto la costrizione di doversi immedesimare totalmente nei destini aziendali, perdendo così individualità e distacco. Alla Mazda questo non poteva succedere. Il coinvolgimento doveva essere totale, e si estendeva al tempo di non lavoro, richiedeva di imparare “a pensare in giapponese”. Ma ciò nonostante era rarissimo che un occidentale raggiungesse un posto manageriale nell’azienda: a quei posti erano destinati solo i nativi del Sol Levante. Una seconda indagine “spia” viene svolta alla Nissan di Sunderland (UK), nel 1990 uno dei più grandi transplant giapponesi in Europa. Anche in questo caso la ricerca (Philip Garrahan e Paul Stewart, The Nissan Enigma, Mansell , Londra, 1992) ha avuto vita difficile. Le interviste su cui si basa sono state raccolte lontano dal luogo di lavoro e solo con la garanzia dell’anonimato. Secondo gli autori, due accademici, alla Nissan vige un nuovo regime di subordinazione, basato su tre assi portanti: il controllo della forza lavoro tramite la qualità totale, l'espropriazione delle conoscenze operaie tramite la flessibilità, la stretta sorveglianza che passa dal lavoro di gruppo. Essere flessibili, nello stabilimento Nissan, non è un modo per aumentare la professionalità. Le mansioni, seppur ripartite all'interno di un gruppo, rimangono sempre elementari. Ognuno può sostituire chiunque in quanto il compito da svolgere rimane sempre semplice e parcellizzato. La maggiore competenza richiesta ai lavoratori è definita, nelle pubblicazioni aziendali, come «la capacità di eseguire sempre le operazioni in modo corretto, applicando il miglior metodo esistente, cercando di migliorarlo sempre più». All’epoca della ricerca il turn over era altissimo: il 20% degli operai lasciò l’azienda nel primo anno, nonostante che la Nissan sorgesse in un'area tra le più depresse della Gran Bretagna, con un alto tasso di disoccupazione e il reddito medio tra i più bassi d'Europa.
Ma gli studi, anche provenienti dal Giappone, che criticano il toyotismo non si fermano qui: nel 1973 il giornalista Satoshi Kamata, dopo un periodo di lavoro in fabbrica scrive Japan in the Passing Lane: An Insider's Account of Life in a Japanese Auto Factory per documentare le durissime condizioni di vita nelle fabbriche basate sulla qualità totale. Lo stesso fa nel 1995 Laurie Graham, (On the Line at Subaru-Isuzu: The Japanese Model and the American Worker, Cornell University Press 1995), che per sei mesi lavora in una fabbrica giapponese a Lafayette, nell’Indiana. La ricercatrice individua sette elementi che contribuiscono a creare una “gabbia di ferro attorno ai lavoratori”: i criteri di assunzione, la formazione ideologica, la filosofia del Kaizen, il lavoro di gruppo, la cultura aziendale, la linea di montaggio computerizzata e la produzione just-in-time. Da ultimo, va citato lo studente di dottorato Ryoji Ihara, che nel 2001 lavora sotto copertura per 100 giorni alla catena di montaggio della Toyota, sperimentando di persona la scarsa autonomia di cui dispone un operaio e la ripetitività del lavoro. La sua storia la racconterà qualche anno dopo, in Toyota’s Assembly Line: A View from the Factory Floor ( Trans Pacific Press, 2007).
martedì, luglio 06, 2010
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento