martedì, luglio 06, 2010

Servono ancora gli Incentivi?
Patrizio Di Nicola

1.
Tra i primi ad accorgersi che le persone, per lavorare in maniera più produttiva (almeno dal punto di vista dell’azienda) hanno bisogno di un incentivo, fu l’ing. Frederick W. Taylor . Nato a Philadelphia nel 1856, Taylor aveva passato alcuni anni della sua giovinezza come operaio di fabbrica, ed aveva imparato che gli operai, per evitare di farsi sfruttare troppo, spesso facevano finta di lavorare. Come i plotoni di soldati, infatti, “segnavano il passo”: muovevano mani e piedi, davano l’idea di grande attivismo, ma in realtà stavano semplicemente riposandosi. Ciò avveniva, secondo Taylor, perché il modo di pagare loro lo stipendio disincentivava l’aumento della produttività. La retribuzione, in fondo, era solo in piccola parte legata allo sforzo che ciascuno faceva. Da buon ingegnere, ideò un sistema retributivo che definì “cottimo differenziato”, in grado di premiare economicamente i lavoratori maggiormente produttivi. Il sistema, come noto, si diffuse rapidamente negli Usa. In Europa, il metodo fu adattato da un meccanico francese, Charles Bedeaux, che semplificò il calcolo della produttività basandosi sul concetto di “lavoro da svolgere in un minuto”. Il metodo era tanto efficace che fu adottato un po’ ovunque, e rimase in vigore per molto tempo: addirittura un sistema non dissimile esisteva, ancora negli anni Settanta, nella fabbrica Pirelli .

2.
Con l’avvento della società post industriale crescono “i colletti bianchi”: impiegati che svolgono lavori “di concetto”, sottratti allo sforzo fisico e al rapporto con i macchinari industriali. Per loro il lavoro diventa un complesso mix di quantità di prodotto e di qualità della soluzione trovata, spesso per soddisfare un cliente di cui si è l’interfaccia verso l’azienda. Il lavoro è a volte svolto “per progetti”, e alle persone è quindi affidato un incarico che condiziona il lavoro di altri, così che un fallimento individuale può rappresentare una failure dell’intero sistema. Il rapporto di lavoro, quindi, si fa più soft, e il processo di incentivazione richiede una maggiore fantasia da parte del datore di lavoro. Nasce così la necessità, per le direzioni aziendali, di costruire veri e propri sistemi incentivanti, che puntino alla valorizzazione delle risorse umane, non esclusivamente da un profilo economico, ma anche con benefici immateriali, ad esempio affidando agli individui sempre maggiori responsabilità e permettendo una progressione di carriera.



3.
Uno dei primi ad affrontare in chiave moderna il problema degli incentivi personali fu, sul finire degli anni Trenta, un manager della American Telephone and Telegraph Company, Chester Barnard. Per Barnard l’unico modo per raggiungere l’efficienza consiste nel motivare i membri dell’organizzazione, in modo che essi cooperino agli scopi collettivi . Gli incentivi saranno, a secondo dei casi, di tipo materiale (ad esempio aumenti retributivi, premi di risultato, ecc.) o immateriali (gratificazioni sociali, stima, aumento dell’autorevolezza in azienda, ecc.). I primi, secondo Barnard, permettono di raggiungere in fretta obiettivi di breve durata; i secondi, al contrario, hanno effetti strutturali nell’organizzazione aziendale. Il buon manager, quindi, deve dare attenzione ad entrambi gli incentivi, ma soprattutto a quelli che motivano psicologicamente le persone. Non molto dissimile il pensiero di Abrahm Maslow, uno psicologo americano, che nel 1954 pubblica un volume in cui spiega che i bisogni delle persone sono organizzati come in una piramide: al livello più basso vi sono i bisogni primari, fisiologici (ad esempio: lavorare in un ambiente pulito, svolgere un lavoro sicuro, ecc,). Al livello più elevato vi sono i bisogni che portano le persone a migliorare il loro potenziale umano, e che li portano, attraverso un processo di aumento dell’autostima, a realizzarsi nella propria attività. Una teoria interessante, quella di Maslow, ma anche contestata: molte ricerche, ad esempio, non sono riusciti a dimostrare l’esistenza di una scala dei bisogni , mentri da altra parte si sosteniene, forse non senza fondamento, che i bisogni umani fondamentali non sono organizzati gerarchicamente, ma sono ontologicamente universali per loro natura .

4.
Un buon manager, quindi, più che avere una strategia di incentivazione, deve costruire un sistema incentivante, che tenga conto della complessità degli esseri umani, della tipologia dei lavori che essi svolgono, delle differenti aspettative che le persone sviluppano nel corso del tempo. Puntare tutto sull’aspetto economico, che esista o meno una gerarchia nei bisogni, di certo non paga. Lo dimostra il fallimento della politica delle stock option, che nel tentativo di legare la retribuzione dei top manager all’andamento di borsa delle imprese, ha di fatto creato le condizioni per operazioni di borsa che, mentre ottimizzavano i guadagni a breve termine dei CEO, conducevano le imprese verso il fallimento. Insomma una specie di effetto Hanoi: durante l’era coloniale i francesi, nel tentativo di derattizzare la città, offrirono un compenso per ogni topo catturato. I vietnamiti, per contro, iniziarono un fiorente allevamento di topi da vendere ai colonizzatori .



5.
E’ sempre molto difficile conoscere gli stipendi dei manager, e ciò sia per la naturale riservatezza delle imprese, sia per la complessità delle buste paga dei top executive, che prevedono almeno quattro voci oltre la retribuzione: la quota variabile con i risultati, le opzioni azionarie, i benefit e le gratifiche. Negli Usa, secondo Business Week, i CEO delle cinque maggiori aziende private nel 2007 hanno incassato tra i 16,7 e i 31,9 milioni di dollari. In media, il capo azienda di una delle 500 imprese del listino azionistico S&P guadagna in tre ore quanto un dipendente in un anno.
In Europa la situazione non è molto diversa. Fortune International ha individuato i 25 manager più pagati d’Europa, trovando redditi che vanno da 4,5 ai 32 milioni di dollari, solo in minima parte (tra il 5 e il 20%) erogati in forma di salario . I più pagati sono i manager francesi, ma nell’elenco figurano un po’ tutte le nazionalità.

6
Stranamente, non sempre esiste una relazione tra performance aziendali e premi erogati ai manager. Negli Usa, ad esempio, il manager più pagato del 2007 lavorava alla Johnson & Johnson, che in quell’anno ebbe la crescita azionaria più deludente: appena 3,6% se comparata al +24,3% della ExxonMobil, il cui CEO si è portato a casa “soltanto” 16,7 milioni di dollari, cioè la metà dell’altro. Una evidente ingiustizia nei piani alti del capitalismo mondiale. Tali disparità sono diffuse in tutta l’economia americana, ove non esiste un valore di riferimento che lega le compensazioni dei manager con i guadagni dell’impresa. Vi sono poi presidenti e amministratori che, dopo aver portato le imprese sull’orlo del fallimento, se ne vanno con bonus milionari. Quella dei top manager è una vera e propria giungla retributiva, che si è espansa rapidamente a partire dagli anni ‘90. In quel decennio le retribuzioni dei lavoratori americani sono aumentate mediamente del 37%, mentre quelle dei manager del 571%. Questi, all’inizio del 1980, avevano una retribuzione circa 40 volte un lavoratore medio, mentre all’inizio del 2000 il rapporto era passato a 500.



7.
Molti cittadini si attendono che, nei tempi di crisi che stiamo attraversando, gli incentivi, in particolare quelli principeschi, si ridurranno. Ed in effetti ciò è accaduto nelle aziende in crisi – sostanzialmente banche e case automobilistiche - che si sono rivolte ai governi per non fallire. Obama, dopo aver tuonato sulla scarsa sensibilità dei presidenti di Ford, Chrysler e General Motors (che si erano presentati in Senato a spiegare la pessima situazione che attraversavano le rispettive aziende usando i loro tre jet personali), ha imposto la riduzione di tutti gli stipendi e benefit dei manager delle imprese assistite dallo stato. E lo stesso ha fatto la Cancelliera tedesca Merkel e il Presidente francese Sarkozy. Ma non sarà questa la strada futura. Le aziende, appena possibile, torneranno a compensare i manager con incentivi milionari, con la giustificazione che altrimenti perderebbero i migliori dirigenti. In realtà non è vero: i manager migliori, se l’azienda non è profittevole e stimolante se ne andrebbero comunque. In realtà esiste una complicità sociologica “da classe governante” che lega a doppio filo gli azionisti ai manager, e fa si che l’arricchimento degli uni e degli altri debba viaggiare su binari paralleli.

8.
A seguito della crisi cambieranno invece molto le politiche di incentivazione nei confronti dei lavoratori “normali”. In questo caso le aziende faranno di tutto per stringere i cordoni della borsa, nonostante che l’accordo quadro siglato il 22 gennaio 2009 tra Governo e parti sociali (documento non firmato dalla CGIL) preveda la detassazione della retribuzione aziendale legata alla produttività. In fondo, in moltissime aziende si inizia a pensare che, in tempi di crisi di incentivi economici non vi sia bisogno: tenersi il lavoro – in una fase di crescente disoccupazione - è già un forte incentivo. Per contro, potrebbero aumentare gli incentivi immateriali, principalmente la possibilità di svolgere il lavoro con orari flessibili, magari anche da casa (tecnicamente si chiama telelavoro) o lavorare in team su progetti stimolanti. Ma le aziende migliori, consapevoli degli insegnamenti di Herzberg , sapranno offrire incentivi che sono un mix di fattori economici e motivazionali, e in tal modo faciliteranno la ricerca della felicità dei propri dipendenti.

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