Il punto sulla Corporate Social Responsibility
A cura di Patrizio Di Nicola
1. Make profit
“The only social responsibility of business is to make profits”. Con queste parole il premio Nobel per l’economia Milton Friedman negli anni ‘70 dello scorso secolo affrontava la questione della responsabilità sociale dell’impresa. Secondo l’autorevole economista, baluardo del pensiero neoliberista, l’impegno sociale supremo dei manager consisteva nell’ottenere profitti, in misura maggiore possibile, purchè nel rispetto delle regole del mercato aperto, corretto, competitivo. In tal modo si sarebbe prodotta ricchezza per tutti, capitalisti e lavoratori. Prima di lui, nel 1958, Theodor Levitt, economista di Harvard noto per aver coniato il termine “globalizzazione”, metteva in guardia economisti e manager dalla moda della neonata responsabilità sociale d'impresa, considerata un rischio per un sistema pluralistico come quello americano. Levitt temeva che spingere le imprese ad occuparsi di questioni non strettamente connesse alla produzione, potesse favorire l’acquisizione di un eccessivo potere, e le avrebbe portate ad incorporare funzioni- ad esempio di governo dell’economia - da tenere rigorosamente fuori della loro portata .
Come ci si pone oggi rispetto all’affermazione di Friedman? A prima vista, al di là dell’aver sostituito la parola profitti con creazione di valore ed aver specificato che chi ne beneficerà non saranno “i padroni”, ma gli efebici stakeholders , apparentemente essa sembra aver conservato inalterata la propria validità: oggi come ieri le aziende rimangono sistemi organizzativi che rispondono a finalità economiche e hanno l’imperativo di massimizzare il profitto. Nulla di nuovo sotto il sole, quindi: come ricordava all’inizio della Rivoluzione Industriale l’economista scozzese Adam Smith, "non é dalla generosità del macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi" .
In realtà, da venti anni a questa parte, il ruolo giocato dalle aziende nella Società si è ampliato, ed emerge una visione complementare a quella liberista. Il fine economico non è più considerato un fattore sufficiente ad esaurire la funzione di unità produttiva ma deve associarsi ad obiettivi sociali e ambientali. Ne discende quindi che la generazione di profitto costituisce solamente una condizione necessaria, ma certo non più sufficiente perché l’impresa possa ritenersi legittimata ad operare sui mercati. Ad innovare il quadro arrivano infatti Freeman e Gilbert, che dedicano un famoso saggio all’etica, intesa come insieme di valori che deve guidare le decisioni aziendali nelle relazioni con gli stakholders, e deve quindi necessariamente essere considerata come un elemento intrinseco del business . Secondo questa analisi gli individui tendono a creare dei presupposti sulla loro vita, stabilendo dei valori e dei progetti per perseguirli. Le aziende sono strumenti per il conseguimento di tali progetti. La loro esistenza, quindi, è moralmente giustificata solo se incorpora le aspettative personali dei membri, i quali dovrebbero sempre avere la possibilità di partecipare alle decisioni rilevanti per i loro progetti. Così, alle imprese si chiede che non si limitino a rispettare semplicemente la legge o i principi economici, ma che nella loro strategia ricerchino sempre i comportamenti etici nel processo decisionale manageriale.
2. Globale e responsabile
La globalizzazione, come noto, ha contribuito a rendere più complessa l’ organizzazione delle imprese e i loro rapporti con l’ambiente in cui operano. Questo fenomeno non ha solamente investito la sfera economica ma ha avuto forti ripercussioni anche in altri settori. Ricordiamo ad esempio l’importanza crescente della comunicazione: l’immagine e la reputazione di un’impresa sono ormai fattori determinanti ai fini della competitività, in quanto consumatori e organizzazioni della società civile hanno accesso ad informazioni sempre più dettagliate riguardo alle condizioni di produzione di beni e servizi e in particolare circa la compatibilità dello sviluppo. In conseguenza di questa crescente attenzione, gli stessi analisti economici non si accontentano più dei normali rendiconti finanziari, ma richiedono informazioni supplementari sul contesto e sul posizionamento dell’impresa nell’opinione pubblica. Per le aziende ciò si traduce nella necessità di adottare comportamenti vigili nei confronti del mercato, ma anche responsabili.
Le aziende più attente, che competono sui mercati internazionali, hanno ormai scoperto che un comportamento responsabile contribuisce a rafforzare il brand value, attraverso lo sviluppo di un rapporto stabile e duraturo con i consumatori/clienti, basato sulla fiducia e la fedeltà alla marca. La CSR (Corporate Social Responsability) può rappresentare infatti un qualificante elemento di differenziazione; ad esempio, chi rispetta le norme a tutela dell’ambiente è, a medio e lungo termine, più competitivo sul mercato internazionale, sia per la migliore reputazione che si è costruito, sia in quanto tali norme favoriscono l’innovazione e la modernizzazione dei processi e dei prodotti, generando tecnologie pulite e economiche. Giusto per esempio, riportiamo il caso del telelavoro, che le aziende più socialmente attente usano spesso. L’avvento e la diffusione di nuove tecnologie di rete, con la conseguente riduzione del costo delle comunicazioni, ha reso estremamente conveniente l’uso di una forma di organizzazione d’impresa che permette al lavoratore a svolgere le proprie mansioni anche al di fuori dai normali luoghi di lavoro: soprattutto a casa, o in movimento, presso i clienti.. Il telelavoro è una innovazione che sia le aziende che i lavoratori percepiscono come win-win: rende il lavoro migliore sotto il profilo del work-life bilance, in quanto libera una quota significativa di tempo, da impiegare in altre attività, migliorando sensibilmente anche la qualità del lavoro a disposizione dell’impresa. Il telelavoro, inoltre, riduce il pendolarismo, il traffico e l’inquinamento. Se un milione di persone potesse telelavorare da casa per un solo giorno a settimana le emissioni di monossidi nell’aria si ridurrebbero di circa 100 milioni di Kg/anno .
È evidente, in definitiva, che adottare comportamenti socialmente responsabili, anche al di là di eventuali certificazioni, non può che essere una strategia vincente, non solo per l’azienda, ma come abbiamo visto, anche per tutti gli stakeholder, a partire dalle parti sociali coinvolte nei processi aziendali. La responsabilità sociale costituisce una strategia in cui entrambe le parti traggono vantaggi che possono andare anche al di là della loro esistenza per ripercuotersi positivamente sulle future generazioni. Un’azienda responsabile è quella capace di anteporre, in tali casi, l’interesse strategico a quello contingente: parafrasando la frase finale del Galileo di Bertold Brecht, viene da dire che ben triste è quella nazione che ha bisogno di disgregarsi per essere competitiva.
Un modello di mondo bilanciato, con regole condivise di convivenza e civiltà, che rispetti la complessità degli interessi delle parti, in fin dei conti lo dobbiamo soprattutto ai nostri figli e nipoti, in quanto la CSR è soprattutto una responsabilità verso il futuro.
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3. Irresponsabilità d’impresa
Nel Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale dell’impresa”, pubblicato nel luglio 2001 dalla Commissione Europea, la responsabilità sociale veniva definita come “l’integrazione su base volontaria dei problemi sociali e ambientali delle imprese nella loro attività produttive e nella loro interazione con gli altri portatori di interesse. Essere socialmente responsabile significa non soltanto far fronte alle attese di legge ma anche andare al di là del soddisfacimento degli obblighi e investire di più nel capitale umano, nell’ambiente e nelle relazioni con i portatori di interessi” .
Ma siamo certi che questo avviene sempre, anche nelle aziende che tentano di applicare, a maggior o minor livello, forme di responsabilità sociale? Luciano Gallino, uno dei più autorevoli sociologi italiani, ha espresso in un libro dall’inequivocabile titolo “L’Impresa Irresponsabile” , molti dubbi in merito. Egli nota che, nel 2003, poco prima lo scoppio dello scandalo Enron negli Stati Uniti, il sito web di tale azienda aveva una apposita sezione dedicata alla CSR, e a quanto l’azienda stessa facesse per attuare comportamenti responsabili. Evidentemente, nota Gallino, la finanza truccata che aveva portato allo scandalo veniva considerata una pratica non in contrasto con l’etica dell’impresa. Ciò avviene, a parere dell’autore, in forza di una non convinta adesione delle imprese e degli stessi governi, alle pratiche della CSR. L’etica rischia di diventare un sistema per “addobbare la vetrina” (window dressing); o “dipingere di verde” (greenwashing) l’impresa, per fare sembrare le sue attività ecocompatibili.
Secondo molti commentatori – e Luciano Gallino tra questi - il volontarismo, l’idea che la CSR vada praticata esclusivamente su base volontaria –come propongono tutte le iniziative istituzionali, - deve essere superato se si vogliono rendere efficaci i principi della responsabilità sociale. A suo avviso, infatti, il potere acquisito dalle imprese ai tempi della globalizzazione può essere contenuto solamente dalla legge.
Ma è davvero così? Vi è più di qualche motivo per dubitarne: anche se esistesse una certificazione internazionale obbligatoria di eticità, non vi è dubbio che molte delle imprese più discusse riuscirebbero ad ottenerla con facilità. In realtà andrebbero distinti:
- comportamenti illeciti, attuati da azionisti o manager delle imprese, per giungere ad arricchimenti rapidi ma criminali o, in generale, sanzionabili penalmente o civilmente;
- comportamenti dell’impresa nel suo complesso intesi ad attuare politiche di business prescindendo dalla CSR.
- comportamenti dell’impresa nel suo complesso intesi ad attuare politiche di business in linea con la CSR.
I primi sono chiaramente oggetto delle leggi e della magistratura. I secondi rientrano invece in una concezione tradizionale del modo di fare business, e sono perfettamente leciti, ed anche, come visto, teorizzati da importanti economisti. Il terzo comportamento, che noi reputiamo virtuoso, costituisce una innovazione nel modo di fare impresa, e anche se pensiamo che sia il modello da seguire per il futuro, dobbiamo riconoscere che non necessariamente le imprese, anche per gli anni a venire, saranno in grado di implementarlo completamente. I due comportamenti, inevitabilmente, coesistono: a secondo delle condizioni storiche del momento, in alcuni casi la responsabilità prevale sui comportamenti predatori, in altri può avvenire il contrario. Tale coesistenza di comportamenti, in fin dei conti, è giustificata dalla stessa ambiguità, anche tra gli addetti ai lavori, circa la validità universale dei principi della CSR.
martedì, luglio 06, 2010
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