Estetica dei posti di lavoro
Di Patrizio Di Nicola
1.
C’era un tempo in cui il luogo di lavoro veniva rappresentato nella forma di ciminiere, altiforni e linee di assemblaggio. Il mondo industriale, popolato di un proletariato in tute di lavoro blu, viveva 10 o 12 ore in moderne caverne, afose e senza luce, al servizio di macchine che non potevano fermarsi mai. William Blake, il visionario poeta e pittore inglese vissuto a cavallo tra ‘700 e ‘800, in alcuni versi famosi raffigura gli opifici dell’epoca come "oscure fabbriche di Satana", caotici antri infernali, avvolti di fumo, nei quale personaggi senza anima trascorrono una grama esistenza seguendo una filosofia meccanicistica che negava il sacro e ogni forma di bellezza e di astrazione .
La “rivoluzione manageriale”, guidata da Taylor e Ford agli inizi del ‘900, si incarica di razionalizzare il lavoro, facendo in modo che le macchine siano sempre in funzione alla massima velocita’ consentita. A tal scopo, bisogna trovare modi nuovi di lavorare, che costringano i lavoratori ad uno sforzo continuo, uniforme e specializzato. Nasce in tal modo la catena di montaggio, e le fabbriche automobilistiche cambiano volto. Da una struttura “ad isola”, ove ogni automobile stava ferma e veniva assemblata da una squadra di operai che svolgevano le lavorazioni più diverse sul suo simulacro, si passa ad una struttura lineare, ove la scocca da assemblare si muove appesa a dei ganci che pendono da un binario sul soffitto e si ferma davanti agli operai, che distribuiti su un percorso a zig-zag attendono di fare la singola operazione che viene loro assegnata da una divisione del lavoro tanto rigida quanto, almeno apparentemente, scientifica. Ad ognuno è concessa un’operazione che dura meno di un minuto, da ripetere migliaia di volte al giorno. Nel 1925 allo stabilimento Ford bastano 10 secondi per produrre un’intera automobile, e il prezzo di vendita si riduce da 850 a 295 dollari. All’operaio francese Luis Ferdinand Céline, capitato nelle sue peregrinazioni americane proprio alla Ford, quel sistema organizzativo sembrò subito folle, ma il lavoro era ben retribuito e forse per questo sopportabile, almeno per brevi periodi . Una vena di follia, neanche troppo velata, si introduce nel mondo del lavoro, e per sempre ci resterà, condizionandone la logica e naturalmente l’apparenza estetica.
2.
Il sistema della catena di montaggio, oltre a diffondersi molto rapidamente in tutte le fabbriche automobilistiche, colonizza ben presto gli uffici, ove serve un nuovo modo di lavoro per organizzare eserciti di impiegati esecutivi che gestiscono la produzione di massa, registrando su migliaia di schede vendite, guadagni, tasse da pagare, salari, e quant’altro. La struttura degli uffici è perlopiù duale: da una parte i pochi manager dispongono di uffici singoli, spaziosi e confortevoli. Al contrario, masse di impiegati vengono stipati in enormi stanzoni, dietro scrivanie rigidamente standardizzate e impersonali, quasi completamente occupate da macchine da scrivere, calcolatrici e tabulatrici. Eppure qualcosa, nel processo di massificazione del lavoro, non sembra funzionare. Lo scoprono, quasi causalmente, un team di ricercatori guidati da Elton Mayo, che a cavallo tra gli anni Venti e Trenta svolgono una serie di esperimenti di illuminotecnica presso lo stabilimento della Western Electric ad Hawthorne, Chicago. Nel tentativo di dimostrare che la produttività del lavoro dipendeva dalla buona illuminazione ambientale, i ricercatori isolarono un gruppo di operaie addette all’assemblaggio di relè elettrici, spostandole da un capannone comune a una stanza appositamente attrezzata. Iniziarono quindi per alcuni giorni ad aumentare l’intensità della luce, ottenendo, come previsto, un incremento della produzione. Poi invertirono un processo peggiorando l’illuminazione. Con stupore, i ricercatori si accorsero che la produttività, anziché ridursi, continuava ad aumentare. L’aumento della produttività dei lavoratori, quindi, non dipendeva dall’illuminazione, ma da un fenomeno sociale: le operaie ripagavano in questo modo l’essere state oggetto di particolari attenzioni da parte della direzione e dei ricercatori. Nasceva in questo modo quella che sarà poi conosciuta come “Scuole delle Relazioni Umane”: una teoria che affermava che la cura dei rapporti sociali in fabbrica poteva innalzare la produzione meglio di tante innovazioni tecniche. D’altra parte, però, l’effetto Hawthorne dimostra anche quanto sia importante l’ambiente fisico di lavoro: passando da un contesto spersonalizzante (la stanza comune) a uno più racchiuso e intimo le operaie sperimentavano una gratificazione personale, e si comportavano di conseguenza, aumentando la produttività “per meritare” tali attenzioni.
3.
Tra le invenzioni più fortunate nella storia del layout interno delle organizzazioni vi è senza dubbio l’Open Space: una struttura fisica degli uffici che ha come elemento minimo il cosiddetto “cubicolo”: uno spazio personale estremamente limitato, circondato da bassi elementi modulari che separano i lavoratori gli uni dall’altro, senza pero’ arrivare a nascondere completamente l’impiegato che vi lavora all’interno. Il termine viene dal latino cubiculum, che indicava originariamente la camera da letto ed è stata adottata in inglese sin dal 15° secolo per indicare le stanze piccole di qualsiasi genere, nonché le aree di lettura nelle biblioteche. Il cubicolo rappresenta, nell’immaginario collettivo, l’idea stessa di ufficio spersonalizzante, ove molti impiegati – come in una catena di montaggio riservata al lavoro intellettuale - lavorano l’uno affianco all’altro, senza vedersi, ma sentendosi in una pressoché completa mancanza di privacy e con enormi problemi di concentrazione. Il primo prototipo dell’open space viene proposto nel 1965 da Robert Propst, un designer della Herman Miller di Zeeland, nel Michigan ed entra in produzione nel 1968, conquistando premi un po’ in tutto il mondo, sino ad approdare al MOMA di New York. L’ideatore di questo sistema lo aveva battezzato Active Office, in quanto doveva aumentare la produttività, il confort e, riducendo la sedentarietà tipica degli uffici chiusi, favorire la circolazione (del sangue) degli impiegati. Diventerà invece un meccanismo perverso, usato dalle imprese per ridurre al minimo lo spazio necessario per ciascun dipendente, ottimizzando all’estremo l’uso delle superfici aziendali. Raccontato mirabilmente dalle argute vignette di Dilbert , l’open space fu disconosciuto dal suo stesso inventore. Propst, nel 2000, poco prima di morire, disse chiaramente che la sua invenzione si era ormai evoluta in maniera perversa, aumentando la corsa delle imprese verso quella che egli definì una "monolithic insanity”. E peggiorando le condizioni di vita dei dipendenti, che ormai iniziavano a soffrire di stress “da cubicolo”.
4.
Con l’avvento delle ICT, i posti di lavoro sono investiti da una ulteriore tempesta di innovazioni. Le scrivanie si ingombrano di monitor, tastiere e stampanti, mentre il lavoro diventa sempre più virtualizzato. Il proprio collega di cubicolo e quello di lavoro si scindono, nel senso che si può lavorare per un capo essendo fisicamente in una sede diversa, o addirittura in un albergo durante uno spostamento di lavoro. I telefoni cellulari, che rendono gli individui sempre raggiungibili, li costringono anche a una disponibilità globale verso il lavoro (o almeno verso il capo). Nasce, quasi contemporaneamente ai primi personal computer, l’idea di telelavorare, cioè di sfruttare le tecnologie che trattano e trasmettono informazione per delocalizzare i lavoratori, facendoli lavorare da casa. I vantaggi sono molti: i telelavoratori, sottratti agli uffici – catena di montaggio, recuperano una loro individualità e diventano più produttivi, in molti casi sino al 30%. Si riduce lo stress del pendolarismo, e di conseguenza anche l’inquinamento. Ma le aziende, nonostante tutto, sono restie a sposare in pieno il nuovo paradigma offerto dal telelavoro, in quanto esso richiede un ripensamento dei modelli organizzativi. Nel telelavoro, infatti, bisogna fidarsi del lavoratore più che controllarlo e contrattare il carico di lavoro più che imporlo. Ciò mette in discussione il tradizionale potere esercitato da molti manager: senza un ripensamento del ruolo dei capi, se ne mina lo status, ovvio che ci siano reazioni contro il telelavoro, tanti forti quanto sotterranee.
Le aziende che invece sposano i nuovi metodi di lavoro sviluppano un’estetica nuova degli uffici, quella virtuale. Il paradigma emergente e’ quello dell’Hotelling: l’azienda ha un numero ridotto di scrivanie rispetto ai dipendenti, e chi ha bisogno di recarsi in ufficio deve prenotare online il posto di lavoro, la sala riunione, la segretaria. In tal modo si ha riduzione dell’occupazione degli spazi ed ottimizzazione delle risorse, e le aziende possono riutilizzare le aree dismesse per creare zone di condivisione delle conoscenze e di formazione, oppure fitness center per il relax; alcune, semplicemente, tagliano le spese e chiudono sedi non più utilizzate.
Ma il nuovo modo di lavorare permesso dalle tecnologie ha anche un rischio potenziale: le persone, se lasciate per troppo tempo a lavorare soli da casa, perdono il senso di appartenenza ad una comunita’ aziendale, e si riduce il processo di trasferimento delle conoscenze che sta alla base di molte aziende innovative. Le imprese più attente hanno quindi capito che il telelavoro non può decretare la fine dell’ufficio. I due contesti non possono che integrarsi, sia temporalmente (alcuni giorni si lavora a casa, altri in ufficio, e la distribuzione dipende dal lavoro che ciascuno svolge) sia funzionalmente (a casa si fanno lavori che richiedono maggiore concentrazione, in ufficio si partecipa a riunioni e a lavori di gruppo).
Insomma un nuovo mondo si è aperto. Come sempre, le aziende più veloci ad adattarsi alle mutate condizioni ne godranno i benefici maggiori. E’ sempre successo così, è la storia dell’industria, e nessuno ci può fare nulla.
martedì, luglio 06, 2010
Il punto sulla Corporate Social Responsibility
A cura di Patrizio Di Nicola
1. Make profit
“The only social responsibility of business is to make profits”. Con queste parole il premio Nobel per l’economia Milton Friedman negli anni ‘70 dello scorso secolo affrontava la questione della responsabilità sociale dell’impresa. Secondo l’autorevole economista, baluardo del pensiero neoliberista, l’impegno sociale supremo dei manager consisteva nell’ottenere profitti, in misura maggiore possibile, purchè nel rispetto delle regole del mercato aperto, corretto, competitivo. In tal modo si sarebbe prodotta ricchezza per tutti, capitalisti e lavoratori. Prima di lui, nel 1958, Theodor Levitt, economista di Harvard noto per aver coniato il termine “globalizzazione”, metteva in guardia economisti e manager dalla moda della neonata responsabilità sociale d'impresa, considerata un rischio per un sistema pluralistico come quello americano. Levitt temeva che spingere le imprese ad occuparsi di questioni non strettamente connesse alla produzione, potesse favorire l’acquisizione di un eccessivo potere, e le avrebbe portate ad incorporare funzioni- ad esempio di governo dell’economia - da tenere rigorosamente fuori della loro portata .
Come ci si pone oggi rispetto all’affermazione di Friedman? A prima vista, al di là dell’aver sostituito la parola profitti con creazione di valore ed aver specificato che chi ne beneficerà non saranno “i padroni”, ma gli efebici stakeholders , apparentemente essa sembra aver conservato inalterata la propria validità: oggi come ieri le aziende rimangono sistemi organizzativi che rispondono a finalità economiche e hanno l’imperativo di massimizzare il profitto. Nulla di nuovo sotto il sole, quindi: come ricordava all’inizio della Rivoluzione Industriale l’economista scozzese Adam Smith, "non é dalla generosità del macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi" .
In realtà, da venti anni a questa parte, il ruolo giocato dalle aziende nella Società si è ampliato, ed emerge una visione complementare a quella liberista. Il fine economico non è più considerato un fattore sufficiente ad esaurire la funzione di unità produttiva ma deve associarsi ad obiettivi sociali e ambientali. Ne discende quindi che la generazione di profitto costituisce solamente una condizione necessaria, ma certo non più sufficiente perché l’impresa possa ritenersi legittimata ad operare sui mercati. Ad innovare il quadro arrivano infatti Freeman e Gilbert, che dedicano un famoso saggio all’etica, intesa come insieme di valori che deve guidare le decisioni aziendali nelle relazioni con gli stakholders, e deve quindi necessariamente essere considerata come un elemento intrinseco del business . Secondo questa analisi gli individui tendono a creare dei presupposti sulla loro vita, stabilendo dei valori e dei progetti per perseguirli. Le aziende sono strumenti per il conseguimento di tali progetti. La loro esistenza, quindi, è moralmente giustificata solo se incorpora le aspettative personali dei membri, i quali dovrebbero sempre avere la possibilità di partecipare alle decisioni rilevanti per i loro progetti. Così, alle imprese si chiede che non si limitino a rispettare semplicemente la legge o i principi economici, ma che nella loro strategia ricerchino sempre i comportamenti etici nel processo decisionale manageriale.
2. Globale e responsabile
La globalizzazione, come noto, ha contribuito a rendere più complessa l’ organizzazione delle imprese e i loro rapporti con l’ambiente in cui operano. Questo fenomeno non ha solamente investito la sfera economica ma ha avuto forti ripercussioni anche in altri settori. Ricordiamo ad esempio l’importanza crescente della comunicazione: l’immagine e la reputazione di un’impresa sono ormai fattori determinanti ai fini della competitività, in quanto consumatori e organizzazioni della società civile hanno accesso ad informazioni sempre più dettagliate riguardo alle condizioni di produzione di beni e servizi e in particolare circa la compatibilità dello sviluppo. In conseguenza di questa crescente attenzione, gli stessi analisti economici non si accontentano più dei normali rendiconti finanziari, ma richiedono informazioni supplementari sul contesto e sul posizionamento dell’impresa nell’opinione pubblica. Per le aziende ciò si traduce nella necessità di adottare comportamenti vigili nei confronti del mercato, ma anche responsabili.
Le aziende più attente, che competono sui mercati internazionali, hanno ormai scoperto che un comportamento responsabile contribuisce a rafforzare il brand value, attraverso lo sviluppo di un rapporto stabile e duraturo con i consumatori/clienti, basato sulla fiducia e la fedeltà alla marca. La CSR (Corporate Social Responsability) può rappresentare infatti un qualificante elemento di differenziazione; ad esempio, chi rispetta le norme a tutela dell’ambiente è, a medio e lungo termine, più competitivo sul mercato internazionale, sia per la migliore reputazione che si è costruito, sia in quanto tali norme favoriscono l’innovazione e la modernizzazione dei processi e dei prodotti, generando tecnologie pulite e economiche. Giusto per esempio, riportiamo il caso del telelavoro, che le aziende più socialmente attente usano spesso. L’avvento e la diffusione di nuove tecnologie di rete, con la conseguente riduzione del costo delle comunicazioni, ha reso estremamente conveniente l’uso di una forma di organizzazione d’impresa che permette al lavoratore a svolgere le proprie mansioni anche al di fuori dai normali luoghi di lavoro: soprattutto a casa, o in movimento, presso i clienti.. Il telelavoro è una innovazione che sia le aziende che i lavoratori percepiscono come win-win: rende il lavoro migliore sotto il profilo del work-life bilance, in quanto libera una quota significativa di tempo, da impiegare in altre attività, migliorando sensibilmente anche la qualità del lavoro a disposizione dell’impresa. Il telelavoro, inoltre, riduce il pendolarismo, il traffico e l’inquinamento. Se un milione di persone potesse telelavorare da casa per un solo giorno a settimana le emissioni di monossidi nell’aria si ridurrebbero di circa 100 milioni di Kg/anno .
È evidente, in definitiva, che adottare comportamenti socialmente responsabili, anche al di là di eventuali certificazioni, non può che essere una strategia vincente, non solo per l’azienda, ma come abbiamo visto, anche per tutti gli stakeholder, a partire dalle parti sociali coinvolte nei processi aziendali. La responsabilità sociale costituisce una strategia in cui entrambe le parti traggono vantaggi che possono andare anche al di là della loro esistenza per ripercuotersi positivamente sulle future generazioni. Un’azienda responsabile è quella capace di anteporre, in tali casi, l’interesse strategico a quello contingente: parafrasando la frase finale del Galileo di Bertold Brecht, viene da dire che ben triste è quella nazione che ha bisogno di disgregarsi per essere competitiva.
Un modello di mondo bilanciato, con regole condivise di convivenza e civiltà, che rispetti la complessità degli interessi delle parti, in fin dei conti lo dobbiamo soprattutto ai nostri figli e nipoti, in quanto la CSR è soprattutto una responsabilità verso il futuro.
.
3. Irresponsabilità d’impresa
Nel Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale dell’impresa”, pubblicato nel luglio 2001 dalla Commissione Europea, la responsabilità sociale veniva definita come “l’integrazione su base volontaria dei problemi sociali e ambientali delle imprese nella loro attività produttive e nella loro interazione con gli altri portatori di interesse. Essere socialmente responsabile significa non soltanto far fronte alle attese di legge ma anche andare al di là del soddisfacimento degli obblighi e investire di più nel capitale umano, nell’ambiente e nelle relazioni con i portatori di interessi” .
Ma siamo certi che questo avviene sempre, anche nelle aziende che tentano di applicare, a maggior o minor livello, forme di responsabilità sociale? Luciano Gallino, uno dei più autorevoli sociologi italiani, ha espresso in un libro dall’inequivocabile titolo “L’Impresa Irresponsabile” , molti dubbi in merito. Egli nota che, nel 2003, poco prima lo scoppio dello scandalo Enron negli Stati Uniti, il sito web di tale azienda aveva una apposita sezione dedicata alla CSR, e a quanto l’azienda stessa facesse per attuare comportamenti responsabili. Evidentemente, nota Gallino, la finanza truccata che aveva portato allo scandalo veniva considerata una pratica non in contrasto con l’etica dell’impresa. Ciò avviene, a parere dell’autore, in forza di una non convinta adesione delle imprese e degli stessi governi, alle pratiche della CSR. L’etica rischia di diventare un sistema per “addobbare la vetrina” (window dressing); o “dipingere di verde” (greenwashing) l’impresa, per fare sembrare le sue attività ecocompatibili.
Secondo molti commentatori – e Luciano Gallino tra questi - il volontarismo, l’idea che la CSR vada praticata esclusivamente su base volontaria –come propongono tutte le iniziative istituzionali, - deve essere superato se si vogliono rendere efficaci i principi della responsabilità sociale. A suo avviso, infatti, il potere acquisito dalle imprese ai tempi della globalizzazione può essere contenuto solamente dalla legge.
Ma è davvero così? Vi è più di qualche motivo per dubitarne: anche se esistesse una certificazione internazionale obbligatoria di eticità, non vi è dubbio che molte delle imprese più discusse riuscirebbero ad ottenerla con facilità. In realtà andrebbero distinti:
- comportamenti illeciti, attuati da azionisti o manager delle imprese, per giungere ad arricchimenti rapidi ma criminali o, in generale, sanzionabili penalmente o civilmente;
- comportamenti dell’impresa nel suo complesso intesi ad attuare politiche di business prescindendo dalla CSR.
- comportamenti dell’impresa nel suo complesso intesi ad attuare politiche di business in linea con la CSR.
I primi sono chiaramente oggetto delle leggi e della magistratura. I secondi rientrano invece in una concezione tradizionale del modo di fare business, e sono perfettamente leciti, ed anche, come visto, teorizzati da importanti economisti. Il terzo comportamento, che noi reputiamo virtuoso, costituisce una innovazione nel modo di fare impresa, e anche se pensiamo che sia il modello da seguire per il futuro, dobbiamo riconoscere che non necessariamente le imprese, anche per gli anni a venire, saranno in grado di implementarlo completamente. I due comportamenti, inevitabilmente, coesistono: a secondo delle condizioni storiche del momento, in alcuni casi la responsabilità prevale sui comportamenti predatori, in altri può avvenire il contrario. Tale coesistenza di comportamenti, in fin dei conti, è giustificata dalla stessa ambiguità, anche tra gli addetti ai lavori, circa la validità universale dei principi della CSR.
A cura di Patrizio Di Nicola
1. Make profit
“The only social responsibility of business is to make profits”. Con queste parole il premio Nobel per l’economia Milton Friedman negli anni ‘70 dello scorso secolo affrontava la questione della responsabilità sociale dell’impresa. Secondo l’autorevole economista, baluardo del pensiero neoliberista, l’impegno sociale supremo dei manager consisteva nell’ottenere profitti, in misura maggiore possibile, purchè nel rispetto delle regole del mercato aperto, corretto, competitivo. In tal modo si sarebbe prodotta ricchezza per tutti, capitalisti e lavoratori. Prima di lui, nel 1958, Theodor Levitt, economista di Harvard noto per aver coniato il termine “globalizzazione”, metteva in guardia economisti e manager dalla moda della neonata responsabilità sociale d'impresa, considerata un rischio per un sistema pluralistico come quello americano. Levitt temeva che spingere le imprese ad occuparsi di questioni non strettamente connesse alla produzione, potesse favorire l’acquisizione di un eccessivo potere, e le avrebbe portate ad incorporare funzioni- ad esempio di governo dell’economia - da tenere rigorosamente fuori della loro portata .
Come ci si pone oggi rispetto all’affermazione di Friedman? A prima vista, al di là dell’aver sostituito la parola profitti con creazione di valore ed aver specificato che chi ne beneficerà non saranno “i padroni”, ma gli efebici stakeholders , apparentemente essa sembra aver conservato inalterata la propria validità: oggi come ieri le aziende rimangono sistemi organizzativi che rispondono a finalità economiche e hanno l’imperativo di massimizzare il profitto. Nulla di nuovo sotto il sole, quindi: come ricordava all’inizio della Rivoluzione Industriale l’economista scozzese Adam Smith, "non é dalla generosità del macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi" .
In realtà, da venti anni a questa parte, il ruolo giocato dalle aziende nella Società si è ampliato, ed emerge una visione complementare a quella liberista. Il fine economico non è più considerato un fattore sufficiente ad esaurire la funzione di unità produttiva ma deve associarsi ad obiettivi sociali e ambientali. Ne discende quindi che la generazione di profitto costituisce solamente una condizione necessaria, ma certo non più sufficiente perché l’impresa possa ritenersi legittimata ad operare sui mercati. Ad innovare il quadro arrivano infatti Freeman e Gilbert, che dedicano un famoso saggio all’etica, intesa come insieme di valori che deve guidare le decisioni aziendali nelle relazioni con gli stakholders, e deve quindi necessariamente essere considerata come un elemento intrinseco del business . Secondo questa analisi gli individui tendono a creare dei presupposti sulla loro vita, stabilendo dei valori e dei progetti per perseguirli. Le aziende sono strumenti per il conseguimento di tali progetti. La loro esistenza, quindi, è moralmente giustificata solo se incorpora le aspettative personali dei membri, i quali dovrebbero sempre avere la possibilità di partecipare alle decisioni rilevanti per i loro progetti. Così, alle imprese si chiede che non si limitino a rispettare semplicemente la legge o i principi economici, ma che nella loro strategia ricerchino sempre i comportamenti etici nel processo decisionale manageriale.
2. Globale e responsabile
La globalizzazione, come noto, ha contribuito a rendere più complessa l’ organizzazione delle imprese e i loro rapporti con l’ambiente in cui operano. Questo fenomeno non ha solamente investito la sfera economica ma ha avuto forti ripercussioni anche in altri settori. Ricordiamo ad esempio l’importanza crescente della comunicazione: l’immagine e la reputazione di un’impresa sono ormai fattori determinanti ai fini della competitività, in quanto consumatori e organizzazioni della società civile hanno accesso ad informazioni sempre più dettagliate riguardo alle condizioni di produzione di beni e servizi e in particolare circa la compatibilità dello sviluppo. In conseguenza di questa crescente attenzione, gli stessi analisti economici non si accontentano più dei normali rendiconti finanziari, ma richiedono informazioni supplementari sul contesto e sul posizionamento dell’impresa nell’opinione pubblica. Per le aziende ciò si traduce nella necessità di adottare comportamenti vigili nei confronti del mercato, ma anche responsabili.
Le aziende più attente, che competono sui mercati internazionali, hanno ormai scoperto che un comportamento responsabile contribuisce a rafforzare il brand value, attraverso lo sviluppo di un rapporto stabile e duraturo con i consumatori/clienti, basato sulla fiducia e la fedeltà alla marca. La CSR (Corporate Social Responsability) può rappresentare infatti un qualificante elemento di differenziazione; ad esempio, chi rispetta le norme a tutela dell’ambiente è, a medio e lungo termine, più competitivo sul mercato internazionale, sia per la migliore reputazione che si è costruito, sia in quanto tali norme favoriscono l’innovazione e la modernizzazione dei processi e dei prodotti, generando tecnologie pulite e economiche. Giusto per esempio, riportiamo il caso del telelavoro, che le aziende più socialmente attente usano spesso. L’avvento e la diffusione di nuove tecnologie di rete, con la conseguente riduzione del costo delle comunicazioni, ha reso estremamente conveniente l’uso di una forma di organizzazione d’impresa che permette al lavoratore a svolgere le proprie mansioni anche al di fuori dai normali luoghi di lavoro: soprattutto a casa, o in movimento, presso i clienti.. Il telelavoro è una innovazione che sia le aziende che i lavoratori percepiscono come win-win: rende il lavoro migliore sotto il profilo del work-life bilance, in quanto libera una quota significativa di tempo, da impiegare in altre attività, migliorando sensibilmente anche la qualità del lavoro a disposizione dell’impresa. Il telelavoro, inoltre, riduce il pendolarismo, il traffico e l’inquinamento. Se un milione di persone potesse telelavorare da casa per un solo giorno a settimana le emissioni di monossidi nell’aria si ridurrebbero di circa 100 milioni di Kg/anno .
È evidente, in definitiva, che adottare comportamenti socialmente responsabili, anche al di là di eventuali certificazioni, non può che essere una strategia vincente, non solo per l’azienda, ma come abbiamo visto, anche per tutti gli stakeholder, a partire dalle parti sociali coinvolte nei processi aziendali. La responsabilità sociale costituisce una strategia in cui entrambe le parti traggono vantaggi che possono andare anche al di là della loro esistenza per ripercuotersi positivamente sulle future generazioni. Un’azienda responsabile è quella capace di anteporre, in tali casi, l’interesse strategico a quello contingente: parafrasando la frase finale del Galileo di Bertold Brecht, viene da dire che ben triste è quella nazione che ha bisogno di disgregarsi per essere competitiva.
Un modello di mondo bilanciato, con regole condivise di convivenza e civiltà, che rispetti la complessità degli interessi delle parti, in fin dei conti lo dobbiamo soprattutto ai nostri figli e nipoti, in quanto la CSR è soprattutto una responsabilità verso il futuro.
.
3. Irresponsabilità d’impresa
Nel Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale dell’impresa”, pubblicato nel luglio 2001 dalla Commissione Europea, la responsabilità sociale veniva definita come “l’integrazione su base volontaria dei problemi sociali e ambientali delle imprese nella loro attività produttive e nella loro interazione con gli altri portatori di interesse. Essere socialmente responsabile significa non soltanto far fronte alle attese di legge ma anche andare al di là del soddisfacimento degli obblighi e investire di più nel capitale umano, nell’ambiente e nelle relazioni con i portatori di interessi” .
Ma siamo certi che questo avviene sempre, anche nelle aziende che tentano di applicare, a maggior o minor livello, forme di responsabilità sociale? Luciano Gallino, uno dei più autorevoli sociologi italiani, ha espresso in un libro dall’inequivocabile titolo “L’Impresa Irresponsabile” , molti dubbi in merito. Egli nota che, nel 2003, poco prima lo scoppio dello scandalo Enron negli Stati Uniti, il sito web di tale azienda aveva una apposita sezione dedicata alla CSR, e a quanto l’azienda stessa facesse per attuare comportamenti responsabili. Evidentemente, nota Gallino, la finanza truccata che aveva portato allo scandalo veniva considerata una pratica non in contrasto con l’etica dell’impresa. Ciò avviene, a parere dell’autore, in forza di una non convinta adesione delle imprese e degli stessi governi, alle pratiche della CSR. L’etica rischia di diventare un sistema per “addobbare la vetrina” (window dressing); o “dipingere di verde” (greenwashing) l’impresa, per fare sembrare le sue attività ecocompatibili.
Secondo molti commentatori – e Luciano Gallino tra questi - il volontarismo, l’idea che la CSR vada praticata esclusivamente su base volontaria –come propongono tutte le iniziative istituzionali, - deve essere superato se si vogliono rendere efficaci i principi della responsabilità sociale. A suo avviso, infatti, il potere acquisito dalle imprese ai tempi della globalizzazione può essere contenuto solamente dalla legge.
Ma è davvero così? Vi è più di qualche motivo per dubitarne: anche se esistesse una certificazione internazionale obbligatoria di eticità, non vi è dubbio che molte delle imprese più discusse riuscirebbero ad ottenerla con facilità. In realtà andrebbero distinti:
- comportamenti illeciti, attuati da azionisti o manager delle imprese, per giungere ad arricchimenti rapidi ma criminali o, in generale, sanzionabili penalmente o civilmente;
- comportamenti dell’impresa nel suo complesso intesi ad attuare politiche di business prescindendo dalla CSR.
- comportamenti dell’impresa nel suo complesso intesi ad attuare politiche di business in linea con la CSR.
I primi sono chiaramente oggetto delle leggi e della magistratura. I secondi rientrano invece in una concezione tradizionale del modo di fare business, e sono perfettamente leciti, ed anche, come visto, teorizzati da importanti economisti. Il terzo comportamento, che noi reputiamo virtuoso, costituisce una innovazione nel modo di fare impresa, e anche se pensiamo che sia il modello da seguire per il futuro, dobbiamo riconoscere che non necessariamente le imprese, anche per gli anni a venire, saranno in grado di implementarlo completamente. I due comportamenti, inevitabilmente, coesistono: a secondo delle condizioni storiche del momento, in alcuni casi la responsabilità prevale sui comportamenti predatori, in altri può avvenire il contrario. Tale coesistenza di comportamenti, in fin dei conti, è giustificata dalla stessa ambiguità, anche tra gli addetti ai lavori, circa la validità universale dei principi della CSR.
Servono ancora gli Incentivi?
Patrizio Di Nicola
1.
Tra i primi ad accorgersi che le persone, per lavorare in maniera più produttiva (almeno dal punto di vista dell’azienda) hanno bisogno di un incentivo, fu l’ing. Frederick W. Taylor . Nato a Philadelphia nel 1856, Taylor aveva passato alcuni anni della sua giovinezza come operaio di fabbrica, ed aveva imparato che gli operai, per evitare di farsi sfruttare troppo, spesso facevano finta di lavorare. Come i plotoni di soldati, infatti, “segnavano il passo”: muovevano mani e piedi, davano l’idea di grande attivismo, ma in realtà stavano semplicemente riposandosi. Ciò avveniva, secondo Taylor, perché il modo di pagare loro lo stipendio disincentivava l’aumento della produttività. La retribuzione, in fondo, era solo in piccola parte legata allo sforzo che ciascuno faceva. Da buon ingegnere, ideò un sistema retributivo che definì “cottimo differenziato”, in grado di premiare economicamente i lavoratori maggiormente produttivi. Il sistema, come noto, si diffuse rapidamente negli Usa. In Europa, il metodo fu adattato da un meccanico francese, Charles Bedeaux, che semplificò il calcolo della produttività basandosi sul concetto di “lavoro da svolgere in un minuto”. Il metodo era tanto efficace che fu adottato un po’ ovunque, e rimase in vigore per molto tempo: addirittura un sistema non dissimile esisteva, ancora negli anni Settanta, nella fabbrica Pirelli .
2.
Con l’avvento della società post industriale crescono “i colletti bianchi”: impiegati che svolgono lavori “di concetto”, sottratti allo sforzo fisico e al rapporto con i macchinari industriali. Per loro il lavoro diventa un complesso mix di quantità di prodotto e di qualità della soluzione trovata, spesso per soddisfare un cliente di cui si è l’interfaccia verso l’azienda. Il lavoro è a volte svolto “per progetti”, e alle persone è quindi affidato un incarico che condiziona il lavoro di altri, così che un fallimento individuale può rappresentare una failure dell’intero sistema. Il rapporto di lavoro, quindi, si fa più soft, e il processo di incentivazione richiede una maggiore fantasia da parte del datore di lavoro. Nasce così la necessità, per le direzioni aziendali, di costruire veri e propri sistemi incentivanti, che puntino alla valorizzazione delle risorse umane, non esclusivamente da un profilo economico, ma anche con benefici immateriali, ad esempio affidando agli individui sempre maggiori responsabilità e permettendo una progressione di carriera.
3.
Uno dei primi ad affrontare in chiave moderna il problema degli incentivi personali fu, sul finire degli anni Trenta, un manager della American Telephone and Telegraph Company, Chester Barnard. Per Barnard l’unico modo per raggiungere l’efficienza consiste nel motivare i membri dell’organizzazione, in modo che essi cooperino agli scopi collettivi . Gli incentivi saranno, a secondo dei casi, di tipo materiale (ad esempio aumenti retributivi, premi di risultato, ecc.) o immateriali (gratificazioni sociali, stima, aumento dell’autorevolezza in azienda, ecc.). I primi, secondo Barnard, permettono di raggiungere in fretta obiettivi di breve durata; i secondi, al contrario, hanno effetti strutturali nell’organizzazione aziendale. Il buon manager, quindi, deve dare attenzione ad entrambi gli incentivi, ma soprattutto a quelli che motivano psicologicamente le persone. Non molto dissimile il pensiero di Abrahm Maslow, uno psicologo americano, che nel 1954 pubblica un volume in cui spiega che i bisogni delle persone sono organizzati come in una piramide: al livello più basso vi sono i bisogni primari, fisiologici (ad esempio: lavorare in un ambiente pulito, svolgere un lavoro sicuro, ecc,). Al livello più elevato vi sono i bisogni che portano le persone a migliorare il loro potenziale umano, e che li portano, attraverso un processo di aumento dell’autostima, a realizzarsi nella propria attività. Una teoria interessante, quella di Maslow, ma anche contestata: molte ricerche, ad esempio, non sono riusciti a dimostrare l’esistenza di una scala dei bisogni , mentri da altra parte si sosteniene, forse non senza fondamento, che i bisogni umani fondamentali non sono organizzati gerarchicamente, ma sono ontologicamente universali per loro natura .
4.
Un buon manager, quindi, più che avere una strategia di incentivazione, deve costruire un sistema incentivante, che tenga conto della complessità degli esseri umani, della tipologia dei lavori che essi svolgono, delle differenti aspettative che le persone sviluppano nel corso del tempo. Puntare tutto sull’aspetto economico, che esista o meno una gerarchia nei bisogni, di certo non paga. Lo dimostra il fallimento della politica delle stock option, che nel tentativo di legare la retribuzione dei top manager all’andamento di borsa delle imprese, ha di fatto creato le condizioni per operazioni di borsa che, mentre ottimizzavano i guadagni a breve termine dei CEO, conducevano le imprese verso il fallimento. Insomma una specie di effetto Hanoi: durante l’era coloniale i francesi, nel tentativo di derattizzare la città, offrirono un compenso per ogni topo catturato. I vietnamiti, per contro, iniziarono un fiorente allevamento di topi da vendere ai colonizzatori .
5.
E’ sempre molto difficile conoscere gli stipendi dei manager, e ciò sia per la naturale riservatezza delle imprese, sia per la complessità delle buste paga dei top executive, che prevedono almeno quattro voci oltre la retribuzione: la quota variabile con i risultati, le opzioni azionarie, i benefit e le gratifiche. Negli Usa, secondo Business Week, i CEO delle cinque maggiori aziende private nel 2007 hanno incassato tra i 16,7 e i 31,9 milioni di dollari. In media, il capo azienda di una delle 500 imprese del listino azionistico S&P guadagna in tre ore quanto un dipendente in un anno.
In Europa la situazione non è molto diversa. Fortune International ha individuato i 25 manager più pagati d’Europa, trovando redditi che vanno da 4,5 ai 32 milioni di dollari, solo in minima parte (tra il 5 e il 20%) erogati in forma di salario . I più pagati sono i manager francesi, ma nell’elenco figurano un po’ tutte le nazionalità.
6
Stranamente, non sempre esiste una relazione tra performance aziendali e premi erogati ai manager. Negli Usa, ad esempio, il manager più pagato del 2007 lavorava alla Johnson & Johnson, che in quell’anno ebbe la crescita azionaria più deludente: appena 3,6% se comparata al +24,3% della ExxonMobil, il cui CEO si è portato a casa “soltanto” 16,7 milioni di dollari, cioè la metà dell’altro. Una evidente ingiustizia nei piani alti del capitalismo mondiale. Tali disparità sono diffuse in tutta l’economia americana, ove non esiste un valore di riferimento che lega le compensazioni dei manager con i guadagni dell’impresa. Vi sono poi presidenti e amministratori che, dopo aver portato le imprese sull’orlo del fallimento, se ne vanno con bonus milionari. Quella dei top manager è una vera e propria giungla retributiva, che si è espansa rapidamente a partire dagli anni ‘90. In quel decennio le retribuzioni dei lavoratori americani sono aumentate mediamente del 37%, mentre quelle dei manager del 571%. Questi, all’inizio del 1980, avevano una retribuzione circa 40 volte un lavoratore medio, mentre all’inizio del 2000 il rapporto era passato a 500.
7.
Molti cittadini si attendono che, nei tempi di crisi che stiamo attraversando, gli incentivi, in particolare quelli principeschi, si ridurranno. Ed in effetti ciò è accaduto nelle aziende in crisi – sostanzialmente banche e case automobilistiche - che si sono rivolte ai governi per non fallire. Obama, dopo aver tuonato sulla scarsa sensibilità dei presidenti di Ford, Chrysler e General Motors (che si erano presentati in Senato a spiegare la pessima situazione che attraversavano le rispettive aziende usando i loro tre jet personali), ha imposto la riduzione di tutti gli stipendi e benefit dei manager delle imprese assistite dallo stato. E lo stesso ha fatto la Cancelliera tedesca Merkel e il Presidente francese Sarkozy. Ma non sarà questa la strada futura. Le aziende, appena possibile, torneranno a compensare i manager con incentivi milionari, con la giustificazione che altrimenti perderebbero i migliori dirigenti. In realtà non è vero: i manager migliori, se l’azienda non è profittevole e stimolante se ne andrebbero comunque. In realtà esiste una complicità sociologica “da classe governante” che lega a doppio filo gli azionisti ai manager, e fa si che l’arricchimento degli uni e degli altri debba viaggiare su binari paralleli.
8.
A seguito della crisi cambieranno invece molto le politiche di incentivazione nei confronti dei lavoratori “normali”. In questo caso le aziende faranno di tutto per stringere i cordoni della borsa, nonostante che l’accordo quadro siglato il 22 gennaio 2009 tra Governo e parti sociali (documento non firmato dalla CGIL) preveda la detassazione della retribuzione aziendale legata alla produttività. In fondo, in moltissime aziende si inizia a pensare che, in tempi di crisi di incentivi economici non vi sia bisogno: tenersi il lavoro – in una fase di crescente disoccupazione - è già un forte incentivo. Per contro, potrebbero aumentare gli incentivi immateriali, principalmente la possibilità di svolgere il lavoro con orari flessibili, magari anche da casa (tecnicamente si chiama telelavoro) o lavorare in team su progetti stimolanti. Ma le aziende migliori, consapevoli degli insegnamenti di Herzberg , sapranno offrire incentivi che sono un mix di fattori economici e motivazionali, e in tal modo faciliteranno la ricerca della felicità dei propri dipendenti.
Patrizio Di Nicola
1.
Tra i primi ad accorgersi che le persone, per lavorare in maniera più produttiva (almeno dal punto di vista dell’azienda) hanno bisogno di un incentivo, fu l’ing. Frederick W. Taylor . Nato a Philadelphia nel 1856, Taylor aveva passato alcuni anni della sua giovinezza come operaio di fabbrica, ed aveva imparato che gli operai, per evitare di farsi sfruttare troppo, spesso facevano finta di lavorare. Come i plotoni di soldati, infatti, “segnavano il passo”: muovevano mani e piedi, davano l’idea di grande attivismo, ma in realtà stavano semplicemente riposandosi. Ciò avveniva, secondo Taylor, perché il modo di pagare loro lo stipendio disincentivava l’aumento della produttività. La retribuzione, in fondo, era solo in piccola parte legata allo sforzo che ciascuno faceva. Da buon ingegnere, ideò un sistema retributivo che definì “cottimo differenziato”, in grado di premiare economicamente i lavoratori maggiormente produttivi. Il sistema, come noto, si diffuse rapidamente negli Usa. In Europa, il metodo fu adattato da un meccanico francese, Charles Bedeaux, che semplificò il calcolo della produttività basandosi sul concetto di “lavoro da svolgere in un minuto”. Il metodo era tanto efficace che fu adottato un po’ ovunque, e rimase in vigore per molto tempo: addirittura un sistema non dissimile esisteva, ancora negli anni Settanta, nella fabbrica Pirelli .
2.
Con l’avvento della società post industriale crescono “i colletti bianchi”: impiegati che svolgono lavori “di concetto”, sottratti allo sforzo fisico e al rapporto con i macchinari industriali. Per loro il lavoro diventa un complesso mix di quantità di prodotto e di qualità della soluzione trovata, spesso per soddisfare un cliente di cui si è l’interfaccia verso l’azienda. Il lavoro è a volte svolto “per progetti”, e alle persone è quindi affidato un incarico che condiziona il lavoro di altri, così che un fallimento individuale può rappresentare una failure dell’intero sistema. Il rapporto di lavoro, quindi, si fa più soft, e il processo di incentivazione richiede una maggiore fantasia da parte del datore di lavoro. Nasce così la necessità, per le direzioni aziendali, di costruire veri e propri sistemi incentivanti, che puntino alla valorizzazione delle risorse umane, non esclusivamente da un profilo economico, ma anche con benefici immateriali, ad esempio affidando agli individui sempre maggiori responsabilità e permettendo una progressione di carriera.
3.
Uno dei primi ad affrontare in chiave moderna il problema degli incentivi personali fu, sul finire degli anni Trenta, un manager della American Telephone and Telegraph Company, Chester Barnard. Per Barnard l’unico modo per raggiungere l’efficienza consiste nel motivare i membri dell’organizzazione, in modo che essi cooperino agli scopi collettivi . Gli incentivi saranno, a secondo dei casi, di tipo materiale (ad esempio aumenti retributivi, premi di risultato, ecc.) o immateriali (gratificazioni sociali, stima, aumento dell’autorevolezza in azienda, ecc.). I primi, secondo Barnard, permettono di raggiungere in fretta obiettivi di breve durata; i secondi, al contrario, hanno effetti strutturali nell’organizzazione aziendale. Il buon manager, quindi, deve dare attenzione ad entrambi gli incentivi, ma soprattutto a quelli che motivano psicologicamente le persone. Non molto dissimile il pensiero di Abrahm Maslow, uno psicologo americano, che nel 1954 pubblica un volume in cui spiega che i bisogni delle persone sono organizzati come in una piramide: al livello più basso vi sono i bisogni primari, fisiologici (ad esempio: lavorare in un ambiente pulito, svolgere un lavoro sicuro, ecc,). Al livello più elevato vi sono i bisogni che portano le persone a migliorare il loro potenziale umano, e che li portano, attraverso un processo di aumento dell’autostima, a realizzarsi nella propria attività. Una teoria interessante, quella di Maslow, ma anche contestata: molte ricerche, ad esempio, non sono riusciti a dimostrare l’esistenza di una scala dei bisogni , mentri da altra parte si sosteniene, forse non senza fondamento, che i bisogni umani fondamentali non sono organizzati gerarchicamente, ma sono ontologicamente universali per loro natura .
4.
Un buon manager, quindi, più che avere una strategia di incentivazione, deve costruire un sistema incentivante, che tenga conto della complessità degli esseri umani, della tipologia dei lavori che essi svolgono, delle differenti aspettative che le persone sviluppano nel corso del tempo. Puntare tutto sull’aspetto economico, che esista o meno una gerarchia nei bisogni, di certo non paga. Lo dimostra il fallimento della politica delle stock option, che nel tentativo di legare la retribuzione dei top manager all’andamento di borsa delle imprese, ha di fatto creato le condizioni per operazioni di borsa che, mentre ottimizzavano i guadagni a breve termine dei CEO, conducevano le imprese verso il fallimento. Insomma una specie di effetto Hanoi: durante l’era coloniale i francesi, nel tentativo di derattizzare la città, offrirono un compenso per ogni topo catturato. I vietnamiti, per contro, iniziarono un fiorente allevamento di topi da vendere ai colonizzatori .
5.
E’ sempre molto difficile conoscere gli stipendi dei manager, e ciò sia per la naturale riservatezza delle imprese, sia per la complessità delle buste paga dei top executive, che prevedono almeno quattro voci oltre la retribuzione: la quota variabile con i risultati, le opzioni azionarie, i benefit e le gratifiche. Negli Usa, secondo Business Week, i CEO delle cinque maggiori aziende private nel 2007 hanno incassato tra i 16,7 e i 31,9 milioni di dollari. In media, il capo azienda di una delle 500 imprese del listino azionistico S&P guadagna in tre ore quanto un dipendente in un anno.
In Europa la situazione non è molto diversa. Fortune International ha individuato i 25 manager più pagati d’Europa, trovando redditi che vanno da 4,5 ai 32 milioni di dollari, solo in minima parte (tra il 5 e il 20%) erogati in forma di salario . I più pagati sono i manager francesi, ma nell’elenco figurano un po’ tutte le nazionalità.
6
Stranamente, non sempre esiste una relazione tra performance aziendali e premi erogati ai manager. Negli Usa, ad esempio, il manager più pagato del 2007 lavorava alla Johnson & Johnson, che in quell’anno ebbe la crescita azionaria più deludente: appena 3,6% se comparata al +24,3% della ExxonMobil, il cui CEO si è portato a casa “soltanto” 16,7 milioni di dollari, cioè la metà dell’altro. Una evidente ingiustizia nei piani alti del capitalismo mondiale. Tali disparità sono diffuse in tutta l’economia americana, ove non esiste un valore di riferimento che lega le compensazioni dei manager con i guadagni dell’impresa. Vi sono poi presidenti e amministratori che, dopo aver portato le imprese sull’orlo del fallimento, se ne vanno con bonus milionari. Quella dei top manager è una vera e propria giungla retributiva, che si è espansa rapidamente a partire dagli anni ‘90. In quel decennio le retribuzioni dei lavoratori americani sono aumentate mediamente del 37%, mentre quelle dei manager del 571%. Questi, all’inizio del 1980, avevano una retribuzione circa 40 volte un lavoratore medio, mentre all’inizio del 2000 il rapporto era passato a 500.
7.
Molti cittadini si attendono che, nei tempi di crisi che stiamo attraversando, gli incentivi, in particolare quelli principeschi, si ridurranno. Ed in effetti ciò è accaduto nelle aziende in crisi – sostanzialmente banche e case automobilistiche - che si sono rivolte ai governi per non fallire. Obama, dopo aver tuonato sulla scarsa sensibilità dei presidenti di Ford, Chrysler e General Motors (che si erano presentati in Senato a spiegare la pessima situazione che attraversavano le rispettive aziende usando i loro tre jet personali), ha imposto la riduzione di tutti gli stipendi e benefit dei manager delle imprese assistite dallo stato. E lo stesso ha fatto la Cancelliera tedesca Merkel e il Presidente francese Sarkozy. Ma non sarà questa la strada futura. Le aziende, appena possibile, torneranno a compensare i manager con incentivi milionari, con la giustificazione che altrimenti perderebbero i migliori dirigenti. In realtà non è vero: i manager migliori, se l’azienda non è profittevole e stimolante se ne andrebbero comunque. In realtà esiste una complicità sociologica “da classe governante” che lega a doppio filo gli azionisti ai manager, e fa si che l’arricchimento degli uni e degli altri debba viaggiare su binari paralleli.
8.
A seguito della crisi cambieranno invece molto le politiche di incentivazione nei confronti dei lavoratori “normali”. In questo caso le aziende faranno di tutto per stringere i cordoni della borsa, nonostante che l’accordo quadro siglato il 22 gennaio 2009 tra Governo e parti sociali (documento non firmato dalla CGIL) preveda la detassazione della retribuzione aziendale legata alla produttività. In fondo, in moltissime aziende si inizia a pensare che, in tempi di crisi di incentivi economici non vi sia bisogno: tenersi il lavoro – in una fase di crescente disoccupazione - è già un forte incentivo. Per contro, potrebbero aumentare gli incentivi immateriali, principalmente la possibilità di svolgere il lavoro con orari flessibili, magari anche da casa (tecnicamente si chiama telelavoro) o lavorare in team su progetti stimolanti. Ma le aziende migliori, consapevoli degli insegnamenti di Herzberg , sapranno offrire incentivi che sono un mix di fattori economici e motivazionali, e in tal modo faciliteranno la ricerca della felicità dei propri dipendenti.
Toyota: un Fordismo perfetto?
Di Patrizio Di Nicola
Alla base della “scoperta” in Occidente del toyotismo vi è una ricerca, costata alcuni milioni di dollari, svolta da un ampio team di ricercatori del MIT di Boston. La sintesi dello studio, pubblicata in Italia nel 1991 con il titolo La macchina che ha cambiato il mondo (gli autori erano James Womack, Daniel Jones e Daniel Roos ; la prefazione addirittura di Giovanni Agnelli) sosteneva la supremazia del metodo Toyota rispetto alla produzione di massa in uso in Occidente. Il metodo messo a punto in Giappone presentava molti punti di forza: permetteva grande flessibilità, riduceva gli scarti e migliorava la qualità. Al contempo, secondo gli autori, gli operai diventavano più specializzati e venivano coinvolti nei processi produttivi e di miglioramento; in una parola, acquisivano un maggior potere facendo un lavoro meno alienante. La “bibbia” delle lean production fu immediatamente assunta da imprenditori, consulenti aziendali e giornalisti di settore, che accettarono con entusiasmo il nuovo sistema, d'altronde sicuramente più moderno ed accattivante del vecchio taylor-fordismo. Passarono quindi sotto silenzio le documentate voci che da alcune università e giornali d’inchiesta guardavano al nuovo metodo produttivo con preoccupazione. Nel 1990 i giornalisti Joseph e Suzy Fucini , dopo una indagine nello stabilimento americano della Mazda durata due anni e 150 interviste (Working for the Japanese: Inside Mazda's American Auto Plant, Free Press, 1992), giungono alla conclusione che non tutto era così positivo come la retorica aziendale voleva mostrare. Per i lavoratori molti dei problemi aperti dalla produzione di massa rimanevano attuali, se non aggravati. I due ricercatori, che nonostante fossero tutt'altro che radicali nei loro giudizi furono osteggiati dalla direzione dell'azienda, individuarono con chiarezza i lati oscuri del lavorare «alla giapponese». Anzitutto la costrizione di doversi immedesimare totalmente nei destini aziendali, perdendo così individualità e distacco. Alla Mazda questo non poteva succedere. Il coinvolgimento doveva essere totale, e si estendeva al tempo di non lavoro, richiedeva di imparare “a pensare in giapponese”. Ma ciò nonostante era rarissimo che un occidentale raggiungesse un posto manageriale nell’azienda: a quei posti erano destinati solo i nativi del Sol Levante. Una seconda indagine “spia” viene svolta alla Nissan di Sunderland (UK), nel 1990 uno dei più grandi transplant giapponesi in Europa. Anche in questo caso la ricerca (Philip Garrahan e Paul Stewart, The Nissan Enigma, Mansell , Londra, 1992) ha avuto vita difficile. Le interviste su cui si basa sono state raccolte lontano dal luogo di lavoro e solo con la garanzia dell’anonimato. Secondo gli autori, due accademici, alla Nissan vige un nuovo regime di subordinazione, basato su tre assi portanti: il controllo della forza lavoro tramite la qualità totale, l'espropriazione delle conoscenze operaie tramite la flessibilità, la stretta sorveglianza che passa dal lavoro di gruppo. Essere flessibili, nello stabilimento Nissan, non è un modo per aumentare la professionalità. Le mansioni, seppur ripartite all'interno di un gruppo, rimangono sempre elementari. Ognuno può sostituire chiunque in quanto il compito da svolgere rimane sempre semplice e parcellizzato. La maggiore competenza richiesta ai lavoratori è definita, nelle pubblicazioni aziendali, come «la capacità di eseguire sempre le operazioni in modo corretto, applicando il miglior metodo esistente, cercando di migliorarlo sempre più». All’epoca della ricerca il turn over era altissimo: il 20% degli operai lasciò l’azienda nel primo anno, nonostante che la Nissan sorgesse in un'area tra le più depresse della Gran Bretagna, con un alto tasso di disoccupazione e il reddito medio tra i più bassi d'Europa.
Ma gli studi, anche provenienti dal Giappone, che criticano il toyotismo non si fermano qui: nel 1973 il giornalista Satoshi Kamata, dopo un periodo di lavoro in fabbrica scrive Japan in the Passing Lane: An Insider's Account of Life in a Japanese Auto Factory per documentare le durissime condizioni di vita nelle fabbriche basate sulla qualità totale. Lo stesso fa nel 1995 Laurie Graham, (On the Line at Subaru-Isuzu: The Japanese Model and the American Worker, Cornell University Press 1995), che per sei mesi lavora in una fabbrica giapponese a Lafayette, nell’Indiana. La ricercatrice individua sette elementi che contribuiscono a creare una “gabbia di ferro attorno ai lavoratori”: i criteri di assunzione, la formazione ideologica, la filosofia del Kaizen, il lavoro di gruppo, la cultura aziendale, la linea di montaggio computerizzata e la produzione just-in-time. Da ultimo, va citato lo studente di dottorato Ryoji Ihara, che nel 2001 lavora sotto copertura per 100 giorni alla catena di montaggio della Toyota, sperimentando di persona la scarsa autonomia di cui dispone un operaio e la ripetitività del lavoro. La sua storia la racconterà qualche anno dopo, in Toyota’s Assembly Line: A View from the Factory Floor ( Trans Pacific Press, 2007).
Di Patrizio Di Nicola
Alla base della “scoperta” in Occidente del toyotismo vi è una ricerca, costata alcuni milioni di dollari, svolta da un ampio team di ricercatori del MIT di Boston. La sintesi dello studio, pubblicata in Italia nel 1991 con il titolo La macchina che ha cambiato il mondo (gli autori erano James Womack, Daniel Jones e Daniel Roos ; la prefazione addirittura di Giovanni Agnelli) sosteneva la supremazia del metodo Toyota rispetto alla produzione di massa in uso in Occidente. Il metodo messo a punto in Giappone presentava molti punti di forza: permetteva grande flessibilità, riduceva gli scarti e migliorava la qualità. Al contempo, secondo gli autori, gli operai diventavano più specializzati e venivano coinvolti nei processi produttivi e di miglioramento; in una parola, acquisivano un maggior potere facendo un lavoro meno alienante. La “bibbia” delle lean production fu immediatamente assunta da imprenditori, consulenti aziendali e giornalisti di settore, che accettarono con entusiasmo il nuovo sistema, d'altronde sicuramente più moderno ed accattivante del vecchio taylor-fordismo. Passarono quindi sotto silenzio le documentate voci che da alcune università e giornali d’inchiesta guardavano al nuovo metodo produttivo con preoccupazione. Nel 1990 i giornalisti Joseph e Suzy Fucini , dopo una indagine nello stabilimento americano della Mazda durata due anni e 150 interviste (Working for the Japanese: Inside Mazda's American Auto Plant, Free Press, 1992), giungono alla conclusione che non tutto era così positivo come la retorica aziendale voleva mostrare. Per i lavoratori molti dei problemi aperti dalla produzione di massa rimanevano attuali, se non aggravati. I due ricercatori, che nonostante fossero tutt'altro che radicali nei loro giudizi furono osteggiati dalla direzione dell'azienda, individuarono con chiarezza i lati oscuri del lavorare «alla giapponese». Anzitutto la costrizione di doversi immedesimare totalmente nei destini aziendali, perdendo così individualità e distacco. Alla Mazda questo non poteva succedere. Il coinvolgimento doveva essere totale, e si estendeva al tempo di non lavoro, richiedeva di imparare “a pensare in giapponese”. Ma ciò nonostante era rarissimo che un occidentale raggiungesse un posto manageriale nell’azienda: a quei posti erano destinati solo i nativi del Sol Levante. Una seconda indagine “spia” viene svolta alla Nissan di Sunderland (UK), nel 1990 uno dei più grandi transplant giapponesi in Europa. Anche in questo caso la ricerca (Philip Garrahan e Paul Stewart, The Nissan Enigma, Mansell , Londra, 1992) ha avuto vita difficile. Le interviste su cui si basa sono state raccolte lontano dal luogo di lavoro e solo con la garanzia dell’anonimato. Secondo gli autori, due accademici, alla Nissan vige un nuovo regime di subordinazione, basato su tre assi portanti: il controllo della forza lavoro tramite la qualità totale, l'espropriazione delle conoscenze operaie tramite la flessibilità, la stretta sorveglianza che passa dal lavoro di gruppo. Essere flessibili, nello stabilimento Nissan, non è un modo per aumentare la professionalità. Le mansioni, seppur ripartite all'interno di un gruppo, rimangono sempre elementari. Ognuno può sostituire chiunque in quanto il compito da svolgere rimane sempre semplice e parcellizzato. La maggiore competenza richiesta ai lavoratori è definita, nelle pubblicazioni aziendali, come «la capacità di eseguire sempre le operazioni in modo corretto, applicando il miglior metodo esistente, cercando di migliorarlo sempre più». All’epoca della ricerca il turn over era altissimo: il 20% degli operai lasciò l’azienda nel primo anno, nonostante che la Nissan sorgesse in un'area tra le più depresse della Gran Bretagna, con un alto tasso di disoccupazione e il reddito medio tra i più bassi d'Europa.
Ma gli studi, anche provenienti dal Giappone, che criticano il toyotismo non si fermano qui: nel 1973 il giornalista Satoshi Kamata, dopo un periodo di lavoro in fabbrica scrive Japan in the Passing Lane: An Insider's Account of Life in a Japanese Auto Factory per documentare le durissime condizioni di vita nelle fabbriche basate sulla qualità totale. Lo stesso fa nel 1995 Laurie Graham, (On the Line at Subaru-Isuzu: The Japanese Model and the American Worker, Cornell University Press 1995), che per sei mesi lavora in una fabbrica giapponese a Lafayette, nell’Indiana. La ricercatrice individua sette elementi che contribuiscono a creare una “gabbia di ferro attorno ai lavoratori”: i criteri di assunzione, la formazione ideologica, la filosofia del Kaizen, il lavoro di gruppo, la cultura aziendale, la linea di montaggio computerizzata e la produzione just-in-time. Da ultimo, va citato lo studente di dottorato Ryoji Ihara, che nel 2001 lavora sotto copertura per 100 giorni alla catena di montaggio della Toyota, sperimentando di persona la scarsa autonomia di cui dispone un operaio e la ripetitività del lavoro. La sua storia la racconterà qualche anno dopo, in Toyota’s Assembly Line: A View from the Factory Floor ( Trans Pacific Press, 2007).
Fiat Pomigliano
Di Patrizio Di Nicola
1.
L’accordo Fiat di Pomigliano, del quale nel momento in cui scrivo è in corso il contestato referendum, apre allo studioso molti campi di riflessione. Il giurista, infatti, avrà di che ragionare attorno alla costituzionalità degli articoli 14 e 15 del testo, che prevedono che qualsiasi comportamento, collettivo o di singoli dipendenti contro l’accordo stesso (quindi ivi incluso l’aderire o indire a uno sciopero), darà luogo a specifiche sanzioni: per i sindacati l’interruzione dei contributi e dei permessi sindacali, mentre per il lavoratore si può arrivare al licenziamento. Gli esperti di relazioni industriali, invece, avranno molti punti da approfondire, prima fra tutti la disciplina degli straordinari e dei recuperi, che prevede lo svolgimento di tali attività anche al posto della pausa per il pasto, 30 minuti a fine di ciascun turno. I critici dell’accordo fanno notare che ciò è in contrasto con la Direttiva Europea sull’orario di lavoro del 2003 (che all’art. 4 prevede, per prestazioni superiori alle sei ore di lavoro consecutive, una pausa), oltre che alla legge 66 del 2003, che fa espresso riferimento a una pausa per la mensa. Il sociologo del lavoro, dal canto suo, non potrà non concentrarsi sulla trasformazione dell’organizzazione di fabbrica che l’accordo prevede e che renderà lo stabilimento del napoletano il più neo-Fordista della galassia Fiat. Su questo, dunque, ci concentreremo nei paragrafi successivi.
2.
L’articolo 5 dell’accordo, dal titolo “Organizzazione del lavoro”, sancisce l’introduzione di un nuovo modello organizzativo, il WCM (World Class Manufacturing) e il sistema Ergo-UAS. Il primo termine indica una filosofia, nata dalla produzione snella e dal toyotismo, che prevede il coinvolgimento di tutti i lavoratori, dal manager all’operaio, nel processo di miglioramento continuo del prodotto. L’obiettivo è di produrre automobili sempre più soddisfacenti per i clienti, ai costi migliori (Todd J., World-Class Manufacturing, McGraw-Hill, London, 1995). Il WCM pone l’accento sul miglioramento ergonomico delle postazioni lavorative per aumentare la produttività, sulla riprogettazione delle postazioni di lavoro al fine di ridurre la necessità dell’operaio di spostarsi per prendere i pezzi da montare e ridurre in tal modo i tempi del ciclo produttivo, ma soprattutto sul lavoro in team, ai quali è demandata l’attività di problem solving. Per essere produttori di classe mondiale ci vuole molta partecipazione da parte dei lavoratori: alla Toyota ogni anno arrivano circa un milione di proposte di miglioramento, tutte studiate con attenzione dalla direzione, spesso adottate e premiate. Non si può dire che in Fiat, almeno per ora, esista una filosofia comparabile. L’Ergo-UAS, dal canto suo, costituisce una metodologia già sperimentata nello stabilimento di Mirafiori, per raggiungere gli obiettivi del WCM. Il sistema, descritto nell’allegato 2 all’accordo, si basa sulla ridefinizione dei carichi ergonomici derivanti dai nuovi assetti delle postazioni di lavoro e su un sistema di studio dei tempi – peraltro molto simile concettualmente a quello propugnato dall’ing. Taylor all’inizio del ‘900 – che grazie all’informatica permette di plasmare completamente il ciclo lavorativo e i gesti degli operai al fine di ottenere, almeno in linea di principio, la produttività massima. Taylor chiamava ciò la One Best Way, il modo migliore di lavorare, che andava inculcato in ciascun operaio.
3.
WCM e Ergo-UAS entreranno in funzione a Pomigliano solo tra due anni, quando lo stabilimento, dopo un lungo periodo di Cassa Integrazione, sarà stato completamente riconvertito per la produzione della Panda e il layout del sito rivoluzionato per ottenere l’obiettivo di produrre 280 mila auto, una al minuto, su una singola linea di produzione. Ma l’accordo ha già deciso che le “soluzioni ergonomiche migliorative” che verranno implementate a fine ristrutturazione porteranno a una riduzione delle pause del 25% (anziché due di 20 minuti, tre di 10 minuti, guarda caso il valore minimo previsto dalla citata Direttiva Europea). Quei 10 minuti generano un aumento di produzione di circa 6500 auto l’anno. In teoria ciò si dovrebbe ottenere a parità di fatica, in quanto il sistema di metrica del lavoro “premia” l’operaio che svolge una attività più dura con un surplus di tempo di riposo, aggiunto all’operazione, che va dal 1 al 13% . Ma le cose non paiono stare proprio così: un operaio di Mirafiori addetto alla produzione della MiTo, ove il metodo e’ in uso, intervistato da Repubblica, rivela che quasi tutte le lavorazioni che si svolgono in quella fabbrica prevedono il livello minimo di pausa del 1% (con il vecchio sistema erano al 5%). La saturazione del lavoro, quindi, arriva nelle fasi attive al 99%: il rischio che la fatica aumenti è tutt’altro che teorico, e la fabbrica WCM somiglia pericolosamente alle strutture tayloriste degli anni Sessanta. Una inchiesta svolta a Mirafiori, ad esempio, dimostra che il 60% degli operai svolge compiti ripetitivi, che si esauriscono in circa 60 secondi o poco più, mentre per l’80% delle donne il lavoro è ripetitivo e di estrema semplicità (si veda, ad esempio, F. Garibaldo, “A company in transition: Fiat Mirafiori of Turin”, International Journal of Automotive Technology and Management , Vol. 8, No.2, 2008, pp. 185 – 193).
4.
Alla base della partecipazione dei lavoratori, secondo le idee originali di Taiichi Ohno, l’ingegnere che negli anni Cinquanta progettò il Toyota Production System, vi è il principio del Jidoka (traducibile con “autonomazione”), cioè l’automazione con un “tocco umano”: un sistema che attribuisce larga autonomia al lavoratore il quale, se si accorge che qualcosa non va nella produzione, può fermarla senza chiedere pareri o permessi. Solo così, infatti, si salvaguarda sempre la qualità del prodotto. Il principio dell’autonomazione non ha avuto sinora larga applicazione fuori del Giappone: nelle fabbriche occidentali fermare la produzione richiede l’intervento di livelli decisionali ben sopra l’operaio. Nella fabbrica che si candida a diventare eccellenza produttiva mondiale vi dovrebbe essere, per i lavoratori, la possibilità di migliorare l’organizzazione del lavoro, partecipando alla progettazione del sistema ergonomico della fabbrica. Dire la propria sul lavoro è un elemento di controllo, che permette di adeguare le mansioni alle persone. Ma la WCM “made in Torino” cerca l’esatto opposto, deve adeguare le persone al lavoro. E’ qui, in fin dei conti, che la proposta della Fiat si scopre smaccatamente taylor-fordista. Ai lavoratori, infatti, i tempi standard vengono imposti dall’esterno, sulla base di una ricostruzione delle mansioni e dei movimenti effettuati dalla direzione con sofisticati metodi informatici. L’unica partecipazione che viene lasciata agli operai consiste nella possibilità di avanzare un reclamo quando i tempi assegnati sono troppo stretti. Ma la procedura da seguire (descritta a pag. 19 dell’allegato tecnico all’accordo) pare leggermente kafkiana: il lavoratore deve dapprima lamentarsi con il proprio responsabile, il quale, se decide di prendere in considerazione la protesta, la passa all’Ente preposto allo studio dei tempi, che eseguirà, entro sette giorni, un controllo dell’operazione contestata, comunicando il risultato per via gerarchica. Se la risposta non soddisfa l’operaio, questi può avanzare una nuova protesta, questa volta scritta, tramite un rappresentante della RSU. Anche in tal caso si avrà una risposta scritta. Se anche questa seconda volta l’esito è negativo, allora il malcapitato potrà appellarsi ad una speciale commissione che deve decidere in 5 giorni. Comunque vada, in tutto questo periodo rimane in vigore il tempo assegnato dalla Fiat (che l’operaio da cui parte la protesta non riesce a rispettare, altrimenti perché si sarebbe imbarcato in tante vicissitudini?) e nessuno può intraprendere azioni “unilaterali”: il guidatore non va mai disturbato.
5.
Nel libro Il tubo di cristallo: modello giapponese e fabbrica integrata alla Fiat auto, scritto nel 1993 da Giuseppe Bonazzi, l’autore si domandava in che modo l’azienda avrebbe potuto ottenere dagli operai la partecipazione necessaria a far funzionare il nuovo metodo produttivo. La chiave di volta veniva individuata nella riduzione dello sforzo fisico, una novità che assumeva anche un valore simbolico: attenuando la penosità tipica del lavoro operaio, se ne aumenta il decoro, la dignità e il comfort, attivando una volontà di partecipazione e di coinvolgimento nelle innovazioni. Oggi questa esigenza non sembra più all’ordine del giorno, e lavorare nella nuova Pomigliano richiederà più fatica. Per dirla con Gallino, “occorre che le persone lavorino come robot, ma non possono essere sostituite da robot”. Una storia che raccontava già Henry Ford nel 1917; solo che si pensava fosse ormai superata.
Di Patrizio Di Nicola
1.
L’accordo Fiat di Pomigliano, del quale nel momento in cui scrivo è in corso il contestato referendum, apre allo studioso molti campi di riflessione. Il giurista, infatti, avrà di che ragionare attorno alla costituzionalità degli articoli 14 e 15 del testo, che prevedono che qualsiasi comportamento, collettivo o di singoli dipendenti contro l’accordo stesso (quindi ivi incluso l’aderire o indire a uno sciopero), darà luogo a specifiche sanzioni: per i sindacati l’interruzione dei contributi e dei permessi sindacali, mentre per il lavoratore si può arrivare al licenziamento. Gli esperti di relazioni industriali, invece, avranno molti punti da approfondire, prima fra tutti la disciplina degli straordinari e dei recuperi, che prevede lo svolgimento di tali attività anche al posto della pausa per il pasto, 30 minuti a fine di ciascun turno. I critici dell’accordo fanno notare che ciò è in contrasto con la Direttiva Europea sull’orario di lavoro del 2003 (che all’art. 4 prevede, per prestazioni superiori alle sei ore di lavoro consecutive, una pausa), oltre che alla legge 66 del 2003, che fa espresso riferimento a una pausa per la mensa. Il sociologo del lavoro, dal canto suo, non potrà non concentrarsi sulla trasformazione dell’organizzazione di fabbrica che l’accordo prevede e che renderà lo stabilimento del napoletano il più neo-Fordista della galassia Fiat. Su questo, dunque, ci concentreremo nei paragrafi successivi.
2.
L’articolo 5 dell’accordo, dal titolo “Organizzazione del lavoro”, sancisce l’introduzione di un nuovo modello organizzativo, il WCM (World Class Manufacturing) e il sistema Ergo-UAS. Il primo termine indica una filosofia, nata dalla produzione snella e dal toyotismo, che prevede il coinvolgimento di tutti i lavoratori, dal manager all’operaio, nel processo di miglioramento continuo del prodotto. L’obiettivo è di produrre automobili sempre più soddisfacenti per i clienti, ai costi migliori (Todd J., World-Class Manufacturing, McGraw-Hill, London, 1995). Il WCM pone l’accento sul miglioramento ergonomico delle postazioni lavorative per aumentare la produttività, sulla riprogettazione delle postazioni di lavoro al fine di ridurre la necessità dell’operaio di spostarsi per prendere i pezzi da montare e ridurre in tal modo i tempi del ciclo produttivo, ma soprattutto sul lavoro in team, ai quali è demandata l’attività di problem solving. Per essere produttori di classe mondiale ci vuole molta partecipazione da parte dei lavoratori: alla Toyota ogni anno arrivano circa un milione di proposte di miglioramento, tutte studiate con attenzione dalla direzione, spesso adottate e premiate. Non si può dire che in Fiat, almeno per ora, esista una filosofia comparabile. L’Ergo-UAS, dal canto suo, costituisce una metodologia già sperimentata nello stabilimento di Mirafiori, per raggiungere gli obiettivi del WCM. Il sistema, descritto nell’allegato 2 all’accordo, si basa sulla ridefinizione dei carichi ergonomici derivanti dai nuovi assetti delle postazioni di lavoro e su un sistema di studio dei tempi – peraltro molto simile concettualmente a quello propugnato dall’ing. Taylor all’inizio del ‘900 – che grazie all’informatica permette di plasmare completamente il ciclo lavorativo e i gesti degli operai al fine di ottenere, almeno in linea di principio, la produttività massima. Taylor chiamava ciò la One Best Way, il modo migliore di lavorare, che andava inculcato in ciascun operaio.
3.
WCM e Ergo-UAS entreranno in funzione a Pomigliano solo tra due anni, quando lo stabilimento, dopo un lungo periodo di Cassa Integrazione, sarà stato completamente riconvertito per la produzione della Panda e il layout del sito rivoluzionato per ottenere l’obiettivo di produrre 280 mila auto, una al minuto, su una singola linea di produzione. Ma l’accordo ha già deciso che le “soluzioni ergonomiche migliorative” che verranno implementate a fine ristrutturazione porteranno a una riduzione delle pause del 25% (anziché due di 20 minuti, tre di 10 minuti, guarda caso il valore minimo previsto dalla citata Direttiva Europea). Quei 10 minuti generano un aumento di produzione di circa 6500 auto l’anno. In teoria ciò si dovrebbe ottenere a parità di fatica, in quanto il sistema di metrica del lavoro “premia” l’operaio che svolge una attività più dura con un surplus di tempo di riposo, aggiunto all’operazione, che va dal 1 al 13% . Ma le cose non paiono stare proprio così: un operaio di Mirafiori addetto alla produzione della MiTo, ove il metodo e’ in uso, intervistato da Repubblica, rivela che quasi tutte le lavorazioni che si svolgono in quella fabbrica prevedono il livello minimo di pausa del 1% (con il vecchio sistema erano al 5%). La saturazione del lavoro, quindi, arriva nelle fasi attive al 99%: il rischio che la fatica aumenti è tutt’altro che teorico, e la fabbrica WCM somiglia pericolosamente alle strutture tayloriste degli anni Sessanta. Una inchiesta svolta a Mirafiori, ad esempio, dimostra che il 60% degli operai svolge compiti ripetitivi, che si esauriscono in circa 60 secondi o poco più, mentre per l’80% delle donne il lavoro è ripetitivo e di estrema semplicità (si veda, ad esempio, F. Garibaldo, “A company in transition: Fiat Mirafiori of Turin”, International Journal of Automotive Technology and Management , Vol. 8, No.2, 2008, pp. 185 – 193).
4.
Alla base della partecipazione dei lavoratori, secondo le idee originali di Taiichi Ohno, l’ingegnere che negli anni Cinquanta progettò il Toyota Production System, vi è il principio del Jidoka (traducibile con “autonomazione”), cioè l’automazione con un “tocco umano”: un sistema che attribuisce larga autonomia al lavoratore il quale, se si accorge che qualcosa non va nella produzione, può fermarla senza chiedere pareri o permessi. Solo così, infatti, si salvaguarda sempre la qualità del prodotto. Il principio dell’autonomazione non ha avuto sinora larga applicazione fuori del Giappone: nelle fabbriche occidentali fermare la produzione richiede l’intervento di livelli decisionali ben sopra l’operaio. Nella fabbrica che si candida a diventare eccellenza produttiva mondiale vi dovrebbe essere, per i lavoratori, la possibilità di migliorare l’organizzazione del lavoro, partecipando alla progettazione del sistema ergonomico della fabbrica. Dire la propria sul lavoro è un elemento di controllo, che permette di adeguare le mansioni alle persone. Ma la WCM “made in Torino” cerca l’esatto opposto, deve adeguare le persone al lavoro. E’ qui, in fin dei conti, che la proposta della Fiat si scopre smaccatamente taylor-fordista. Ai lavoratori, infatti, i tempi standard vengono imposti dall’esterno, sulla base di una ricostruzione delle mansioni e dei movimenti effettuati dalla direzione con sofisticati metodi informatici. L’unica partecipazione che viene lasciata agli operai consiste nella possibilità di avanzare un reclamo quando i tempi assegnati sono troppo stretti. Ma la procedura da seguire (descritta a pag. 19 dell’allegato tecnico all’accordo) pare leggermente kafkiana: il lavoratore deve dapprima lamentarsi con il proprio responsabile, il quale, se decide di prendere in considerazione la protesta, la passa all’Ente preposto allo studio dei tempi, che eseguirà, entro sette giorni, un controllo dell’operazione contestata, comunicando il risultato per via gerarchica. Se la risposta non soddisfa l’operaio, questi può avanzare una nuova protesta, questa volta scritta, tramite un rappresentante della RSU. Anche in tal caso si avrà una risposta scritta. Se anche questa seconda volta l’esito è negativo, allora il malcapitato potrà appellarsi ad una speciale commissione che deve decidere in 5 giorni. Comunque vada, in tutto questo periodo rimane in vigore il tempo assegnato dalla Fiat (che l’operaio da cui parte la protesta non riesce a rispettare, altrimenti perché si sarebbe imbarcato in tante vicissitudini?) e nessuno può intraprendere azioni “unilaterali”: il guidatore non va mai disturbato.
5.
Nel libro Il tubo di cristallo: modello giapponese e fabbrica integrata alla Fiat auto, scritto nel 1993 da Giuseppe Bonazzi, l’autore si domandava in che modo l’azienda avrebbe potuto ottenere dagli operai la partecipazione necessaria a far funzionare il nuovo metodo produttivo. La chiave di volta veniva individuata nella riduzione dello sforzo fisico, una novità che assumeva anche un valore simbolico: attenuando la penosità tipica del lavoro operaio, se ne aumenta il decoro, la dignità e il comfort, attivando una volontà di partecipazione e di coinvolgimento nelle innovazioni. Oggi questa esigenza non sembra più all’ordine del giorno, e lavorare nella nuova Pomigliano richiederà più fatica. Per dirla con Gallino, “occorre che le persone lavorino come robot, ma non possono essere sostituite da robot”. Una storia che raccontava già Henry Ford nel 1917; solo che si pensava fosse ormai superata.
65 anni e i diritti pari son
Di Patrizio Di Nicola
Questo mese le donne, specialmente quelle che lavorano nel pubblico impiego, segnano un punto a loro favore. Le cose stanno cambiando e grazie alle illuminate alte sfere dell’Unione Europea si affermerà in breve un’era di pari opportunità. L’età della pensione, che nel pubblico impiego sarà equiparata a quella degli uomini, sale a 65 anni. Appena lo ha saputo, il nostro ministro del lavoro è corso a Bruxelles, deciso a dirne quattro alla Commissaria Reading. Poi qualcuno deve avergli suggerito che in fin dei conti in questo modo si risparmiavano tre miliardi, che in periodi di vacche magre non sono mica da buttare. Inoltre – tranquilli - non erano mica davvero pari opportunità: nelle retribuzioni il gap del 20% (in Italia; in UK si arriva al 30%; ma tra le collaboratrici il differenziale retributivo di genere arriva al 50%) sarebbe rimasto inalterato, altrimenti che fine avrebbe fatto la competitività delle nostre povere imprese, assediate dalla competizione di cinesi e indiani? Ovviamente anche la difficoltà nel trovare un lavoro non sarebbe stato toccato. Altrimenti le ragazze non si divertono più a girare da un datore di lavoro all’altro per essere guardate come appestate se dicono che si, forse prima o poi gli piacerebbe avere un figlio. In fin dei conti, se cerchi un lavoro meglio essere sterile, lo sanno tutti. Il problema è che le donne guadagnano di meno in quanto lavorano troppo. Solo che il loro lavoro viene svolto fuori dal mercato, nel mondo degli affetti e della cura dei famigliari. Un lavoro inutile per le imprese, ma che per lo Stato ha un enorme valore economico. Si stima che le donne svolgano, ogni giorno, quasi 6 ore di lavori di cura (gli uomini solo 115 minuti). Se pagassimo questo lavoro quanto vale, cioè almeno con la retribuzione di una Colf, arriveremmo alla cifra di 308 miliardi di Euro, un terzo del PIL. Per fortuna lo fanno per amore, e non si decidono a presentare il conto. Così l’impeto ministeriale si è affievolito, giungendo alla rapida conclusione che sull’innalzamento dell’età pensionabile non si poteva trattare. Eravamo abituati male: in Europa si tratta sempre su tutto, dalle quote latte alla produzione dei cetrioli. Così, saremo il primo paese al mondo che, dopo aver relegato le donne in una gabbia di lavori malpagati e precari, anziché favorire la conciliazione, allungherà la disparità. Le donne, fuori dei ministeri, inscenano canti di gioia per lo scampato pericolo: in fin dei conti ad avere le stesse opportunità degli uomini proprio non erano abituate.
Di Patrizio Di Nicola
Questo mese le donne, specialmente quelle che lavorano nel pubblico impiego, segnano un punto a loro favore. Le cose stanno cambiando e grazie alle illuminate alte sfere dell’Unione Europea si affermerà in breve un’era di pari opportunità. L’età della pensione, che nel pubblico impiego sarà equiparata a quella degli uomini, sale a 65 anni. Appena lo ha saputo, il nostro ministro del lavoro è corso a Bruxelles, deciso a dirne quattro alla Commissaria Reading. Poi qualcuno deve avergli suggerito che in fin dei conti in questo modo si risparmiavano tre miliardi, che in periodi di vacche magre non sono mica da buttare. Inoltre – tranquilli - non erano mica davvero pari opportunità: nelle retribuzioni il gap del 20% (in Italia; in UK si arriva al 30%; ma tra le collaboratrici il differenziale retributivo di genere arriva al 50%) sarebbe rimasto inalterato, altrimenti che fine avrebbe fatto la competitività delle nostre povere imprese, assediate dalla competizione di cinesi e indiani? Ovviamente anche la difficoltà nel trovare un lavoro non sarebbe stato toccato. Altrimenti le ragazze non si divertono più a girare da un datore di lavoro all’altro per essere guardate come appestate se dicono che si, forse prima o poi gli piacerebbe avere un figlio. In fin dei conti, se cerchi un lavoro meglio essere sterile, lo sanno tutti. Il problema è che le donne guadagnano di meno in quanto lavorano troppo. Solo che il loro lavoro viene svolto fuori dal mercato, nel mondo degli affetti e della cura dei famigliari. Un lavoro inutile per le imprese, ma che per lo Stato ha un enorme valore economico. Si stima che le donne svolgano, ogni giorno, quasi 6 ore di lavori di cura (gli uomini solo 115 minuti). Se pagassimo questo lavoro quanto vale, cioè almeno con la retribuzione di una Colf, arriveremmo alla cifra di 308 miliardi di Euro, un terzo del PIL. Per fortuna lo fanno per amore, e non si decidono a presentare il conto. Così l’impeto ministeriale si è affievolito, giungendo alla rapida conclusione che sull’innalzamento dell’età pensionabile non si poteva trattare. Eravamo abituati male: in Europa si tratta sempre su tutto, dalle quote latte alla produzione dei cetrioli. Così, saremo il primo paese al mondo che, dopo aver relegato le donne in una gabbia di lavori malpagati e precari, anziché favorire la conciliazione, allungherà la disparità. Le donne, fuori dei ministeri, inscenano canti di gioia per lo scampato pericolo: in fin dei conti ad avere le stesse opportunità degli uomini proprio non erano abituate.
Iscriviti a:
Post (Atom)