Le ICT nelle imprese italiane
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Mese
Poco prima di Natale l’Istat ha reso noto i risultati di un interessante studio, sull’uso delle
tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nelle imprese con almeno 10 addetti. Il campione, pari a 36.347 imprese, rappresenta un universo di 183.386 imprese, per un totale di 7.768.327 addetti. I risultati, come avviene ormai da molti anni, sono estremamente contraddittori e rivelano una relativa arretratezza tecnologica, sebbene selettiva, del nostro tessuto imprenditoriale. Anzitutto va detto che le imprese italiane eccellono in Europa nell’uso dei servizi di e-government messi a disposizione dalla pubblica amministrazione: ma si tratta soprattutto di svolgimento di pratiche burocratiche, finanziarie e fiscali online anziché in presenza (sinceramente chi scrive avrebbe sperato nella estinzioni di gran parte degli adempimenti burocratici, non nella loro traduzione in formato web). Ben poche invece (meno dell’8% del totale), sono le aziende che partecipano a gare d’appalto in rete (forse perche’ se ne fanno poche, ma sicuramente garantirebbero una maggiore trasparenza di procedure e risultati) e quasi nessuna (3,8%) vende i propri prodotti online. Rispetto alla media dei 25 paesi europei, tanto per segnalare qualche altro numero, le aziende italiane sono al 19° posto per possesso di un sito web (lo hanno il 57% delle imprese sopra i 10 dipendenti: nella Repubblica Ceca esiste nel 70% delle aziende) e addirittura al 24° per acquisti e vendite online (dopo di noi vi e’ solo la Lettonia). A questo va aggiunto, naturalmente, uno scarsissimo utilizzo delle ICT per migliorare il lavoro, sotto il profilo della conciliazione dei tempi e della produttività: sono solo il 4,4% del totale le aziende che permettono ai propri dipendenti di accedere alla rete aziendale dall’esterno (in altri termini di telelavorare). Anche il 2006, quindi, dovrà essere archiviato con il Paese afflitto da un’asma tecnologica: per quanto si possa voler correre, mancando sia le risorse economiche, sia la formazione alle ICT, il nostro divario aumenta anziché diminuire. Speriamo nel nuovo anno.
sabato, gennaio 13, 2007
L’e-government nelle province
Di Patrizio Di Nicola
A che punto è il processo di informatizzazione delle Province italiane? A scattare l’ultima foto, almeno in ordine di tempo, ci ha pensato l’Istat, in collaborazione con i Centri regionali di competenza per l’e-government, strutture nate proprio per accelerare i processi di adozione delle tecnologie ICT nelle pubbliche amministrazioni. L’immagine che se ne rileva, relativa al 2005, è come sempre contraddittoria. Infatti, se da una parte 91 province su cento hanno dichiarato la presenza di uno o più uffici dedicati alle nuove tecnologie nella propria struttura organizzativa e la disponibilità di personal computer supera il 70% dei dipendenti, dall’altra si scopre l’esistenza di un enorme divario territoriale: le province del Nord-est hanno quasi un computer per dipendente (96,6%), mentre al Sud il rapporto è di uno a due (56%). Ma come si svolgono le transazioni tipiche dell’e-government? Il sito web istituzionale è il principale strumento utilizzato per fornire elettronicamente moduli e informazioni a famiglie ed aziende. Peccato però che solo nel 68,% delle province esistano servizi interattivi, che permettono ai cittadini di consultare banche dati o verificare l’avanzamento delle pratiche. Ancora di meno (solo il 30%) sono le province nelle quali è possibile l’espletamento (o la mera presentazione) di istanze online, i cosiddetti servizi transattivi. Anche in questa caso al Sud va peggio, e molto, del Nord: le transazioni online sono consentite nel 14% delle province del Mezzogiorno, contro il 62% del Nord-est.
Insomma: l’e-government rimane una chimera, e sarebbe meglio praticarlo che predicarlo.
Di Patrizio Di Nicola
A che punto è il processo di informatizzazione delle Province italiane? A scattare l’ultima foto, almeno in ordine di tempo, ci ha pensato l’Istat, in collaborazione con i Centri regionali di competenza per l’e-government, strutture nate proprio per accelerare i processi di adozione delle tecnologie ICT nelle pubbliche amministrazioni. L’immagine che se ne rileva, relativa al 2005, è come sempre contraddittoria. Infatti, se da una parte 91 province su cento hanno dichiarato la presenza di uno o più uffici dedicati alle nuove tecnologie nella propria struttura organizzativa e la disponibilità di personal computer supera il 70% dei dipendenti, dall’altra si scopre l’esistenza di un enorme divario territoriale: le province del Nord-est hanno quasi un computer per dipendente (96,6%), mentre al Sud il rapporto è di uno a due (56%). Ma come si svolgono le transazioni tipiche dell’e-government? Il sito web istituzionale è il principale strumento utilizzato per fornire elettronicamente moduli e informazioni a famiglie ed aziende. Peccato però che solo nel 68,% delle province esistano servizi interattivi, che permettono ai cittadini di consultare banche dati o verificare l’avanzamento delle pratiche. Ancora di meno (solo il 30%) sono le province nelle quali è possibile l’espletamento (o la mera presentazione) di istanze online, i cosiddetti servizi transattivi. Anche in questa caso al Sud va peggio, e molto, del Nord: le transazioni online sono consentite nel 14% delle province del Mezzogiorno, contro il 62% del Nord-est.
Insomma: l’e-government rimane una chimera, e sarebbe meglio praticarlo che predicarlo.
Spazi aperti
Di Patrizio Di Nicola
Ciascuno di noi, andando in ufficio, sogna di lavorare in uno spazio aperto, magari con visioni celestiali: prati verdi, papaveri rossi, dune di sabbia e scogliere incontaminate. Invece, al massimo, abbiamo davanti un muro. Se siamo fortunati sul muro c’e’ un poster o un quadro. Se la sfortuna ci perseguita, sul poster c’e’ scritto qualcosa relativamente alla nostra produttività. L’idea di cambiare questo stato di cose “buttando giù i muri dell’ufficio” venne, all’inizio degli anni Sessanta, a un designer americano, Robert Propst, che immaginò l’ufficio come un open space: non più muri alti sino al soffitto, ma bassi pannelli che chiudono gli spazi individuali quel tanto che basta per garantire la privacy durante le fasi di lavoro “a testa bassa”, ma che al contempo garantiscono, una volta in piedi, il contatto con gli altri. Una ottima idea, a prima vista: aumenta la socialità, ma salvaguardia la necessità di concentrazione. Solo che le aziende, sempre più attente ai risparmi che alla qualità della vita degli individui, hanno colto l’idea per concentrare in spazi sempre più piccoli (e rumorosi) centinaia di impiegati. L’open space, infatti, è oggi associato, più che all’idea di movimento (questa la filosofia proposta da Propst nel 1968 con il nome Action Office) a quella di cubicolo: uno spazio minimo ed ottimizzato, ove al dipendente è chiesto di lavorare in maniera impersonale e standardizzata. Wired, la nota rivista americana profeta della Net Economy, dice che i cubicoli "sono appena più ampi di una bara e appena più piccoli di una cella di San Quintino". Quindi un posto ottimale per farci lavorare un knowledge worker in attesa di renderlo milionario grazie alle stock option? Peccato che poi questo si senta poco o nulla diverso da un pollo in batteria. Che magari sforna uova d’oro per gli azionisti della sua impresa. I quali davvero veleggiano tra mari incontaminati e spiagge dorate.
Di Patrizio Di Nicola
Ciascuno di noi, andando in ufficio, sogna di lavorare in uno spazio aperto, magari con visioni celestiali: prati verdi, papaveri rossi, dune di sabbia e scogliere incontaminate. Invece, al massimo, abbiamo davanti un muro. Se siamo fortunati sul muro c’e’ un poster o un quadro. Se la sfortuna ci perseguita, sul poster c’e’ scritto qualcosa relativamente alla nostra produttività. L’idea di cambiare questo stato di cose “buttando giù i muri dell’ufficio” venne, all’inizio degli anni Sessanta, a un designer americano, Robert Propst, che immaginò l’ufficio come un open space: non più muri alti sino al soffitto, ma bassi pannelli che chiudono gli spazi individuali quel tanto che basta per garantire la privacy durante le fasi di lavoro “a testa bassa”, ma che al contempo garantiscono, una volta in piedi, il contatto con gli altri. Una ottima idea, a prima vista: aumenta la socialità, ma salvaguardia la necessità di concentrazione. Solo che le aziende, sempre più attente ai risparmi che alla qualità della vita degli individui, hanno colto l’idea per concentrare in spazi sempre più piccoli (e rumorosi) centinaia di impiegati. L’open space, infatti, è oggi associato, più che all’idea di movimento (questa la filosofia proposta da Propst nel 1968 con il nome Action Office) a quella di cubicolo: uno spazio minimo ed ottimizzato, ove al dipendente è chiesto di lavorare in maniera impersonale e standardizzata. Wired, la nota rivista americana profeta della Net Economy, dice che i cubicoli "sono appena più ampi di una bara e appena più piccoli di una cella di San Quintino". Quindi un posto ottimale per farci lavorare un knowledge worker in attesa di renderlo milionario grazie alle stock option? Peccato che poi questo si senta poco o nulla diverso da un pollo in batteria. Che magari sforna uova d’oro per gli azionisti della sua impresa. I quali davvero veleggiano tra mari incontaminati e spiagge dorate.
Meglio il riposo
Di Patrizio Di Nicola
Le finanze delle compagnie aeree sono tutt’altro che floride, lo sappiamo. A rendere un business promettente un vero incubo manageriale hanno contribuito varie cose: l’aumento dei carburanti, i maggiori costi per la sicurezza di aeroporti e aerei, l’aumento della concorrenza seguita alla nascita delle compagnie low cost. Ma un ruolo importante lo giocano anche gli errori di valutazione dei manager, che a volte dimostrano di sapere poco dei loro passeggeri e dell’umanità in genere. Prendiamo il caso delle connessioni hi speed ad Internet in volo. Qualche anno fa è nata una tecnologia, chiamata Connexion, sviluppata dalla Boeing al fine di permettere la navigazione su rete satellitaria durante il volo. L’aziende aerea pare abbia speso, per sviluppare tale meraviglia tecnologica, oltre un miliardo di dollari, superando problemi tecnici di non piccola portata. Ora arriva la notizia, tramite il web dell’azienda, che il servizio verrà dismesso. Motivo? I clienti disponibili a pagare circa 10 dollari per un’ora di connessione in volo, in due anni, sono stati pochissimi. Una ricerca approfondita svolta dalla Boeing (ma perché la avranno fatta dopo avere introdotto il servizio e non prima?) ha dimostrato che gli executive, durante il volo, non sono interessati a lavorare su Internet, quanto a vedersi un buon film o a farsi una dormitina. Non mi sembra un comportamento difficile da intuire: basta guardarsi intorno in aereo o in treno per rendersi conto di come le persone si comportano . Bisogna essere un po’ workhaolic (il termine, molto usato negli USA, indica coloro che non riescono a staccarsi dal lavoro: una vera e propria malattia, per la quale sono sorte cliniche specializzate, che raccomandiamo ai manager delle compagnie aeree) per pensare che nel viaggio tra un lavoro e l’altro quello che i passeggeri vogliono sia soprattutto lavorare come in ufficio. Ma i passeggeri, poi, si prendono la rivincita.
Di Patrizio Di Nicola
Le finanze delle compagnie aeree sono tutt’altro che floride, lo sappiamo. A rendere un business promettente un vero incubo manageriale hanno contribuito varie cose: l’aumento dei carburanti, i maggiori costi per la sicurezza di aeroporti e aerei, l’aumento della concorrenza seguita alla nascita delle compagnie low cost. Ma un ruolo importante lo giocano anche gli errori di valutazione dei manager, che a volte dimostrano di sapere poco dei loro passeggeri e dell’umanità in genere. Prendiamo il caso delle connessioni hi speed ad Internet in volo. Qualche anno fa è nata una tecnologia, chiamata Connexion, sviluppata dalla Boeing al fine di permettere la navigazione su rete satellitaria durante il volo. L’aziende aerea pare abbia speso, per sviluppare tale meraviglia tecnologica, oltre un miliardo di dollari, superando problemi tecnici di non piccola portata. Ora arriva la notizia, tramite il web dell’azienda, che il servizio verrà dismesso. Motivo? I clienti disponibili a pagare circa 10 dollari per un’ora di connessione in volo, in due anni, sono stati pochissimi. Una ricerca approfondita svolta dalla Boeing (ma perché la avranno fatta dopo avere introdotto il servizio e non prima?) ha dimostrato che gli executive, durante il volo, non sono interessati a lavorare su Internet, quanto a vedersi un buon film o a farsi una dormitina. Non mi sembra un comportamento difficile da intuire: basta guardarsi intorno in aereo o in treno per rendersi conto di come le persone si comportano . Bisogna essere un po’ workhaolic (il termine, molto usato negli USA, indica coloro che non riescono a staccarsi dal lavoro: una vera e propria malattia, per la quale sono sorte cliniche specializzate, che raccomandiamo ai manager delle compagnie aeree) per pensare che nel viaggio tra un lavoro e l’altro quello che i passeggeri vogliono sia soprattutto lavorare come in ufficio. Ma i passeggeri, poi, si prendono la rivincita.
Passaporto nightmare
Di Patrizio Di Nicola
D’estate, si sa, si parte per le vacanze. Si pianifica il viaggio, si ragiona delle valigie e di cosa metterci dentro, si pensa a chi potrà prendersi cura delle piante o del gatto casalingo, poi via. Anzi no. Se la nostra meta e’ una località negli Stati Uniti sono guai, in quanto molto probabilmente dovremo richiedere un nuovo passaporto e ci sono discrete possibilità che dovremo cambiare destinazione, in quanto lo Stato italiano non sarà in grado di consegnarci il documento in tempo per la partenza. Con l’entrata in vigore (negli USA, non in Italia) delle norme anti terrorismo il governo americano ha deciso che chi vuole entrare nel loro territorio senza sottoporsi alla lunga e costosa procedura di rilascio del visto deve avere un passaporto dotato di foto digitale (quindi stampata da computer direttamente sul documento). Le questure italiane non dispongono ovunque dei macchinari necessari per l’emissione dei nuovi passaporti (le finanziarie passate, come noto, hanno ridotto gli stanziamenti, non certo aumentati). Ciò comporta la concentrazione delle richieste in alcuni uffici che, sommato al fatto che la grandissima percentuale di richieste si concentrano nei mesi estivi, fa saltare tutti i tempi. Al momento la Questura di Roma, ad esempio, preventiva circa 60 giorni per il rilascio del documento (la legge 1185 del 1967, che nonostante sia stata emanata tanti anni prima dell’avvento delle nuove tecnologie, prometteva il rilascio in 15 giorni, che al massimo potevano raddoppiare) . Ma prima bisogna prendere al volo la fortuna, e riuscire a conquistare uno dei 200 numeretti che, distribuiti molto prima dell’orario di apertura degli uffici, permettono di presentarsi fisicamente allo sportello per “iniziare la pratica”. Certo, chi non ha fretta può evitare la trafila e, pagando 20 euro in più, da alcuni giorni può rivolgersi alle Poste per il rilascio del passaporto. I tempi si allungano, garantito.
Ma l’Italia non è, come ci hanno detto più volte i ministri “competenti”, all’avanguardia nell’e-government? Allora come si spiega che, dal 1967 ad oggi i tempi per rilasciare un documento si siano espansi anziché ridursi? Viene il dubbio che l’e-government sia soprattutto un mezzo con cui l’amministrazione statale incassa le tasse dai cittadini più rapidamente e con meno spese. Come diceva Totò? Ma mi faccia il piacere!
Di Patrizio Di Nicola
D’estate, si sa, si parte per le vacanze. Si pianifica il viaggio, si ragiona delle valigie e di cosa metterci dentro, si pensa a chi potrà prendersi cura delle piante o del gatto casalingo, poi via. Anzi no. Se la nostra meta e’ una località negli Stati Uniti sono guai, in quanto molto probabilmente dovremo richiedere un nuovo passaporto e ci sono discrete possibilità che dovremo cambiare destinazione, in quanto lo Stato italiano non sarà in grado di consegnarci il documento in tempo per la partenza. Con l’entrata in vigore (negli USA, non in Italia) delle norme anti terrorismo il governo americano ha deciso che chi vuole entrare nel loro territorio senza sottoporsi alla lunga e costosa procedura di rilascio del visto deve avere un passaporto dotato di foto digitale (quindi stampata da computer direttamente sul documento). Le questure italiane non dispongono ovunque dei macchinari necessari per l’emissione dei nuovi passaporti (le finanziarie passate, come noto, hanno ridotto gli stanziamenti, non certo aumentati). Ciò comporta la concentrazione delle richieste in alcuni uffici che, sommato al fatto che la grandissima percentuale di richieste si concentrano nei mesi estivi, fa saltare tutti i tempi. Al momento la Questura di Roma, ad esempio, preventiva circa 60 giorni per il rilascio del documento (la legge 1185 del 1967, che nonostante sia stata emanata tanti anni prima dell’avvento delle nuove tecnologie, prometteva il rilascio in 15 giorni, che al massimo potevano raddoppiare) . Ma prima bisogna prendere al volo la fortuna, e riuscire a conquistare uno dei 200 numeretti che, distribuiti molto prima dell’orario di apertura degli uffici, permettono di presentarsi fisicamente allo sportello per “iniziare la pratica”. Certo, chi non ha fretta può evitare la trafila e, pagando 20 euro in più, da alcuni giorni può rivolgersi alle Poste per il rilascio del passaporto. I tempi si allungano, garantito.
Ma l’Italia non è, come ci hanno detto più volte i ministri “competenti”, all’avanguardia nell’e-government? Allora come si spiega che, dal 1967 ad oggi i tempi per rilasciare un documento si siano espansi anziché ridursi? Viene il dubbio che l’e-government sia soprattutto un mezzo con cui l’amministrazione statale incassa le tasse dai cittadini più rapidamente e con meno spese. Come diceva Totò? Ma mi faccia il piacere!
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