Fuga dall’Istruzione?
Nello scorso mese di settembre due bravi ricercatori della Banca d’Italia, Federico Cingano e Piero Cipollone, hanno dato alle stampe un rapporto, originariamente destinato alla Commissione di indagine sul lavoro guidata da Pierre Carniti, sul rendimento dell’istruzione. Il report, in pratica, cerca di calcolare quale sia la convenienza, per una famiglia, di investire sulle risorse umane, ad esempio facendo frequentare l’Università ai figli, anziché convertire i risparmi in titoli. Il rendimento privato dell’istruzione è calcolato come differenza tra i benefici (in termini di maggiori stipendi e maggior probabilità di occupazione) e i costi (tasse scolastiche, acquisto di materiali didattici, mancati guadagni, ecc. ) associati alla decisione di incrementare il proprio livello di istruzione. Secondo i due studiosi, in Italia il tasso di rendimento privato dell’istruzione è circa il 9 per cento, valore ben superiore a quello ottenibile da investimenti finanziari ed è lievemente superiore nelle regioni del Sud rispetto al Centro Nord. Se poi il sistema fiscale fosse più equo, e penalizzasse di meno gli stipendi appena sopra la media, il rendimento aumenterebbe al 10%. Il rendimento privato è solo una parte dei benefici di una migliore istruzione. Se le famiglie decidono di investire in questo campo, infatti, aumentano anche i benefici per la società: maggiore istruzione significa più produttività, più innovazione tecnologica, più incassi per il fisco. In via indiretta, la maggiore istruzione è collegata, secondo molte ricerche svolte in Italia e all’estero, anche a un miglioramento della salute, alla minore criminalità, a un maggior grado di libertà politica. Insomma, tutti avrebbero da guadagnare da un aumento dell’istruzione: le famiglie e la società. Invece, nel Bel Paese, le Università, martoriate da tagli e riforme e contraddittorie, sono allo stremo, e le immatricolazioni in calo. Il numero degli iscritti al primo anno, tra il 2002 e il 2008, è diminuito di oltre 50 mila unità, e i diplomati che entrano all’università sono calati dal 74 al 58%. Una debacle dell’istruzione, accentuata dal fatto che alla maggioranza dei laureati vengono offerti esclusivamente lavori precari, e retribuzioni di 1000 euro. In queste condizioni, chi vuole perdere anni sui libri?
giovedì, marzo 18, 2010
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