mercoledì, ottobre 01, 2008

Oltre il fannullonismo.
Quale innovazione per la Pubblica Amministrazione italiana?
di Patrizio Di Nicola e Marta Trotta



1.
Il dibattito politico che dall’inizio dell’estate è stato ospitato dalle testate giornalistiche si è occupato, con connotati accesi e a volte semplicistici, di quella che è stata definita lotta contro i fannulloni. Sottolineare la scarsa efficienza delle strutture e dei dipendenti pubblici da parte di Ministri ed addetti ai lavori non è un esercizio originale: solo per citare un autorevole precedente, nel marzo 1994, l’allora ministro della Funzione Pubblica, Sabino Cassese, puntò l’indice contro la scarsa produttività della pubblica amministrazione, chiedendo a tutti i dirigenti degli Enti pubblici di misurare in maniera scientifica i carichi di lavoro (pratiche svolte, lettere recapitate, degenti operati, ecc) al fine di scovare le sacche di inefficienza.
Sappiamo come finì: in nessuna PA misurata esistevano eccedenze di personale, semmai vi era una discreta carenza, reale o presunta non è ancora chiaro. La tematica del fannullonismo è stata avanzata anche dall’attuale opposizione: il giurista Pietro Ichino, nel 2006, ha pubblicato un volume dal titolo chiaro, “I nullafacenti”. Di conseguenza, appena eletto al Senato nelle file del PD, ha presentato una proposta di legge intesa a valutare l'efficienza e il rendimento delle strutture pubbliche e dei loro dipendenti. Proposta co-firmata da un discreto numero di ex sindacalisti.
Nulla di nuovo sotto il sole, quindi: la questione del buon funzionamento dell’amministrazione pubblica non è né di destra né di sinistra. Il vero problema è capire come potrà avvenire una tale evoluzione, e perché sia tanto difficile da ottenere. Ciò richiede qualche riflessione sul tema della modernizzazione della pubblica amministrazione, in generale, e sul cambiamento organizzativo, in particolare.

2.
Anzitutto qualche spunto di carattere storico: il modello organizzativo dal quale trovano ispirazione tutte le pubbliche amministrazioni europee è quello dell’apparato burocratico pensato da Max Weber nel 1922. Per tale autore, all’interno di una organizzazione, sono le norme che regolano il tipo di relazione sociale e l’agire amministrativo è governato dal potere legale: è sull’equità della legge che si reggono i principi universalità dei servizi erogati dallo Stato alla collettività. La quale, a quei tempi era caratterizzata da popolazioni relativamente omogenee, composte da gruppi o classi di persone che esprimevano una domanda sociale semplice e identificabile.
Le ragioni della crescente inadeguatezza dei modelli organizzativi ispirati alle logiche weberiane hanno una duplice origine. Innanzitutto, il contesto è profondamente mutato: la pubblica amministrazione è chiamata da un lato a soddisfare bisogni sociali fortemente differenziati all’interno di un sistema globale in cui gli Stati nazionali perdono centralità, dall’altra deve operare in regime di economicità e recupero di risorse. Inoltre, la presunta razionalità burocratica ha generato non pochi effetti perversi, segnalati dal sociologo americano Robert Merton sin dagli anni Cinquanta: l’attitudine a spersonalizzare il più possibile il rapporto tra burocrati e cittadini, che stride con la crescente richiesta di care personalizzato; l’iperspecializzazione e la propensione alla dilatazione organizzativa intesa a rispondere alle nuove esigenze con norme e strutture ad hoc, ma anche ad auto conservarsi; l’incapacità di adattarsi al nuovo, basando i propri comportamenti su un ritualismo esasperato.

3.
Per superare tale situazione, a partire dalla fine degli anni Ottanta, sono state elaborate possibili traiettorie di Riforma per cercare di rendere compatibile ciò che sembrava incompatibile: ridurre i costi, da un lato, e migliorare la qualità dei servizi e l’efficienza del lavoro dei dipendenti pubblici, dall’altro. Si è cercato, in sintesi, di creare un modello organizzativo post-burocratico. Di fatto le traiettorie che hanno guidato i vari progetti di riforma, si sono mosse lungo due diverse coordinate: da una parte una proposta managerial-aziendalista, dall’altro un approccio che possiamo definire di governance.
Il primo propone di trasferire, spesso sic et simpliciter, strumenti, tecniche e linguaggi propri del mondo delle imprese nella pubblica amministrazione. Partendo dalla considerazione di una presunta superiorità del privato sul pubblico, al management vengono presentati nuovi modelli organizzativi e metodi di gestione prescrittivi come una vera e propria “ricetta pronta per l’uso” che permette, “chiavi in mano”, di rendere più efficienti i servizi pubblici e le strutture che li erogano. Il modello imprenditoriale auspica il ricorso ad agenti e fornitori esterni, l’incentivazione di rapporti concorrenziali e di modelli di gestione del personale finalizzati alla maggiore responsabilizzazione verso un utente-cittadino che si sta trasformando in “cliente”. Questo approccio, nato all’interno della business administration statunitense, anche attraverso il supporto di grandi società di consulenza, propone ai decisori pubblici e ai dirigenti soluzioni semi-standardizzate, non tenendo necessariamente conto delle peculiarità nazionali e delle singole amministrazioni. La linea riformista managerial-aziendalista , in definitiva, rischia di mettere in secondo piano o, meglio, di non valorizzare il carattere pubblico della stessa amministrazione, non riuscendo a soddisfare in tal modo il rinnovato bisogno di coesione sociale delle società contemporanee.
Il secondo approccio, quello della governance, è partito dai Paesi scandinavi, i quali hanno scelto traiettorie di riforma che valorizzassero la partecipazione dei cittadini all’erogazione dei servizi con il fine di governare la complessità sociale in un’ottica di rete, con un maggior grado di interazione non solo tra gli stakeholder politici e amministrativi ma anche quelli economici e sociali. Questa proposta guarda all’esterno dell’organizzazione, all’intera società, mettendo al centro la necessità di governare coinvolgendo i diversi stakeholder sociali. Tuttavia il cammino verso la partecipazione è caratterizzato da luci e ombre e da esperienze frammentate e con esiti incerti.
All’interno di queste diversi approcci, non privi di ambiguità e contraddizioni, le scelte fatte in Italia durante il processo di riforma degli anni Novanta (e ancora in corso) la collocano in una posizione di mezzo: da un lato si è cercato di operare in un’ottica efficientistica, mutuando sistemi di controllo e pianificazione dal privato, dall’altro si è operato in un’ottica di efficacia introducendo leggi per la trasparenza amministrativa e la partecipazione dei diversi soggetti alla vita delle amministrazioni (diritto di accesso, bilancio sociale, Conferenza dei servizi, etc.).

4.
Vari ostacoli si sono eretti davanti ai progetti di modernizzazione della PA. Il sistema politico italiano, caratterizzato per lungo tempo dall’assenza di stabilità, ha comportato una debolezza dei governi di progettare e realizzare riforme di ampio respiro. Non è un caso che in Italia il processo di modernizzazione della pubblica amministrazione è stato attivato con ritardo rispetto agli altri paesi europei, e avviato non solo dalla necessità di rispondere a vincoli comunitari, ma anche dalla vicenda di “Mani pulite” che, evidenziando la crisi di legittimità di vari attori politici, ha favorito la costituzione di governi di transizione tecnici che avevano il compito di riscrivere le regole del gioco. Accanto alle peculiarità del sistema politico, va anche ricordato che le caratteristiche del sistema di rappresentazione e di intermediazione degli interessi, non hanno favorito l’introduzione di modalità organizzative nuove. Le timide esperienze nella PA di sistemi premianti che legassero le retribuzione alle prestazioni si sono risolte, complici tutte le parti in causa, in metodi di incentivazione rigorosamente “a pioggia”, equamente distribuiti in base sulla posizione normativa e sulla mera presenza in ufficio. Ciò ha reso impossibile la nascita di figure professionali e ruoli che attraversassero il processo organizzativo e favorissero la flessibilità dell’intera organizzazione. L’ultimo ostacolo che vale la pena di prendere in considerazione è rappresento dalla radicata cultura dell’agire per «atti amministrativi», fortemente legalista e garantista che ostacola il cambiare in modo snello e veloce le regole del gioco. Il formarsi di questa cultura, per Gherardi e Mortara, deriva dal fatto che i ruoli amministrativi con profili e carriere costruite essenzialmente su competenze giuridiche continuano a prevalere rispetto alle deboli burocrazie tecniche caratterizzate da competenze professionali differenziate e più adatte, per formazione e sensibilità, a recepire i segnali di cambiamento.


5.
Le considerazioni svolte ci portano a riflettere sulla scarsa linearità della questione del cambiamento organizzativo. I dipendenti pubblici sono solo una parte del “rompicapo” rappresentato dalla modernizzazione della pubblica amministrazione, che opera, serve ricordarlo, in un campo ove il prodotto è un servizio sociale spesso di prima necessità (la salute, la sicurezza, l’istruzione) e il cliente è in realtà il cittadino con i suoi bisogni. La riflessione sul processo di riforma per avere successo deve andare al di là della facile individuazione di “capri espiatori”, siano essi individuati nei “dipendenti fannulloni”, nei manager incompetenti, nei sindacati troppo invadenti. Esistono variabili strutturali, come il gigantismo organizzativo e l’egualitarismo posizionale, che conducono alla spersonalizzazione della prestazione lavorativa, ad uno scarso coordinamento gestionale e ad una diffusa sensazione di fare parte di un meccanismo che non genera partecipazione e soddisfazione nel lavoro. In tal senso, le polemiche fannulloniste, anziché migliorare il funzionamento della burocrazia, potrebbero aggravare il distacco tra pubblica amministrazione e cittadini.
Un reale cambiamento ha luogo solamente se ci sono gli attori interessati a produrlo e a realizzarlo lungo tutto il processo della sua implementazione. Seguendo il pensiero dello psicologo sociale Kurt Lewin, potremmo dire, in una visione semplificata quanto incisiva, che per realizzarsi, il cambiamento organizzativo dovrebbe attraversare una serie di fasi:
- lo “scongelamento” delle culture dell’organizzazione, al fine di individuarne i valori portanti della Riforma e diffusi tra le persone che operano nella PA;
- la “trasformazione”, cioè il processo di ristrutturazione cognitiva, che deve avvenire perché l’organizzazione cambi. Si tratta, in pratica, di offrire a tutte le parti in causa (dipendenti, sindacato, dirigenza) ruoli, esempi di comportamenti e modelli che permettano alle persone l’attivazione di un processo di creazione di senso che conduca a un cambiamento radicale;
- il “ricongelamento”, cioè la stabilizzazione ed istituzionalizzazione di nuovi metodi di comportamento alternativi ai precedenti che costituiscono i nuovi punti di equilibrio.

Ne discende che è necessario costruire sia un progetto di riforma chiaro e organico che cerchi di individuare non solo gli obiettivi da raggiungere ma anche gli strumenti per attivare processi virtuosi. In tal senso quindi la questione non è solo dove si deve arrivare, ma anche come ci si deve arrivare, ricordandosi che non esistono necessariamente legami causali tra il progetto giuridico e i conseguenti comportamenti delle persone che nell’organizzazione operano.
Come ci ha insegnato Crozier, il grande studioso che ha riformato la pubblica amministrazione francese negli anni Sessanta, “l’uomo non e’ soltanto un braccio e non e’ soltanto un cuore. L’uomo e’ una mente, un progetto, una libertà”. Parlava, ovviamente, dei dipendenti pubblici.

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