I costi dell’ignoranza
Di Patrizio Di Nicola per Rassegna Sindacale
Spesso le aziende si pongono il problema del costo delle informazioni. In realtà dovrebbero ragionare all’inverso, e chiedersi quanto costa l’ignoranza. Nella società basata sulle reti di comunicazione esiste una ignoranza gravissima, dovuta alla mancata condivisione della conoscenza. Ne abbiamo esempi tutti i giorni, in tutti i campi. A me ne è successa una che definire esemplare è poco. Questi i fatti: da qualche anno adopero, al posto del telefono cellulare, un simpatico apparecchietto prodotto in America, che ha il nome di un frutto di bosco. Questa piccola meraviglia mi permette di leggere le email in continuazione. Ovviamente ci si possono fare anche tante altre cose, perfino telefonare. Ma essere in contatto con gli altri è la funzione che più mi serve, e che serve a chi mi scrive. Un giorno, improvvisamente, mi accorgo che qualcosa non va: durante il week end non ricevo neanche un messaggio. Impossibile, gli spammer non riposano mai. Chiamo il numero dedicato all’assistenza clienti, dove una cortese signorina prima fa una serie di controlli amministrativi, poi qualche procedura, infine mi passa a un addetto che si interessa dei palmari come il mio. Inizia così una serie di tentativi di rianimare il defunto, che dura parecchio tempo. Dopo molti sforzi, anche il secondo addetto si dichiara sconfitto e mi avvisa che dovrà intervenire un tecnico vero, con il quale devo prendere un appuntamento telefonico. Il guru, il giorno dopo, mi chiama. E, sorpresa, mi chiede di rifare tutte le procedure e i tentativi già fatti con il precedente operatore. Solo dopo molto tempo da prova di creatività e mi chiede di fare un intervento nuovo, per poi lasciare il palmare spento per 12 ore. Ci lasciamo con l’accordo che se le email non si sono riattivate, bisogna richiamarlo. Ovviamente il giorno dopo non è cambiato nulla, e cerco di ricontattarlo. Scoprendo che è impossibile: ogni telefonata al numero dell’assistenza deve seguire da capo la stessa trafila; altri due giorni di fatica per tornare a parlare con un tecnico che disperato mi dice di andare in uno specifico negozio con un numero magico grazie a cui potrò farmi riparare l’apparato. Ci vado. E avete indovinato? La procedura delle prove ricomincia da capo, in quanto l’addetto del negozio mi spiega che lui, essendo un commerciale, non ha accesso al database dei tecnici e quindi prima deve tentare di rimetterlo in funzione. Dopo due ore di sua grande fatica e mia depressione me ne vado convinto di cambiare sistema e gestore. Sconsolato, appena a casa invio una breve riflessione della mia odissea su Facebook. Neanche un’ora e un amico (un avvocato, mica un ingegnere) mi telefona per dirmi che è successo anche a lui e si risolve cancellando completamente il sistema operativo. E’ una prova che mi manca. Eseguo. Funziona tutto. Morale: se volete risolvere i problemi, affidatevi ai social network, non all’assistenza tecnica degli operatori. Loro non condividono le conoscenze, sono ignoranti e perciò vi fanno perdere tempo e denaro.
domenica, giugno 07, 2009
Il Fisco mi ha scritto…
di Patrizio Di Nicola
Cosa pensereste se, avendo inoltrata “regolare istanza” ad un ufficio del fisco per segnalare che una certa tassa (nella fattispecie quella sulla TV) non dovete più pagarla, e in risposta otterreste una lettera che inizia con le parole “la Sua comunicazione è inefficace” e termina con “si fa presente inoltre che sono ancora dovuti i seguenti importi:”? Ovviamente che la domanda è stata bocciata, e vi siete anche dimenticati di pagare negli anni passati. Invece non è così: un gentile addetto al call center vi spiegherà, al costo di 14 centesimi al minuto, che quella risposta è positiva. Deve essere però corredata di una dichiarazione aggiuntiva – peraltro difficile da comprendere: bisogna giurare di aver ceduto l’apparecchio TV a qualcun altro che già paga il canone. E se invece si fosse solo guastato? Oppure se, visto il ciarpame che passa in TV avessimo deciso di smettere di usarla, affidandoci ad Internet per aggiornarci e divertirci? Tale caso non è contemplato… Perdipiù, spiega il telefonista, gli importi dovuti in realtà non sono dovuti, nel senso che lo sarebbero solo nel caso che voi decideste di pagare la tassa anche in futuro (ma come, se ho chiesto di non pagarla, perché dovrei cambiare idea?). Per finire il giovane impiegato ci ricorda che la documentazione ad integrazione va inviata entro 15 giorni, altrimenti decade tutta la pratica. Peccato che loro, il fisco, ci abbia impiegato tre mesi per reagire alla nostra “istanza”. Cioè sei volte il tempo che concede a noi. Forse io sono troppo pignolo, ma c’è qualcosa che non funziona nel modo di comunicare del Fisco con l’utente, se capita che una persona di intelligenza media abbia problemi a decodificare una missiva. Ma tutti i soldi spesi per l’e-government a cosa servono se non si riesce neanche a scrivere con chiarezza una lettera? Il dubbio forte è che siano stati in buona parte fondi gettati al vento, utili per lo più a finanziare acquisti di macchinari che ingombrano gli uffici senza incidere né sull’organizzazione, né sugli stili di comunicazione, i quali rimangono astrusi, burocratici e autoreferenziali. Così si spiegherebbe come mai, nel recente rapporto ONU sulla preparazione nei confronti dell’e-government l’Italia figuri al posto n. 27, e sia preceduta, solo per fare qualche esempio da Slovenia (n.26), Repubblica Ceca (n. 25) ed Estonia (al n. 13). E ovviamente da tutte le nazioni europee, Spagna inclusa, che nell’ultimo anno ha reso disponibili i siti web del governo, oltre che in spagnolo e inglese, anche in cinese, giapponese, russo, tedesco e portoghese. Provate per curiosità ad andare sul portale ufficiale del Governo italiano: solo in italiano, appunto. Va un po’ meglio nel sito del prossimo G8, che almeno prevede la lingua inglese. Ma solo quella. Forse ai “Grandi 8” si poteva fare la cortesia di scrivere nelle loro lingue madri, no?
di Patrizio Di Nicola
Cosa pensereste se, avendo inoltrata “regolare istanza” ad un ufficio del fisco per segnalare che una certa tassa (nella fattispecie quella sulla TV) non dovete più pagarla, e in risposta otterreste una lettera che inizia con le parole “la Sua comunicazione è inefficace” e termina con “si fa presente inoltre che sono ancora dovuti i seguenti importi:”? Ovviamente che la domanda è stata bocciata, e vi siete anche dimenticati di pagare negli anni passati. Invece non è così: un gentile addetto al call center vi spiegherà, al costo di 14 centesimi al minuto, che quella risposta è positiva. Deve essere però corredata di una dichiarazione aggiuntiva – peraltro difficile da comprendere: bisogna giurare di aver ceduto l’apparecchio TV a qualcun altro che già paga il canone. E se invece si fosse solo guastato? Oppure se, visto il ciarpame che passa in TV avessimo deciso di smettere di usarla, affidandoci ad Internet per aggiornarci e divertirci? Tale caso non è contemplato… Perdipiù, spiega il telefonista, gli importi dovuti in realtà non sono dovuti, nel senso che lo sarebbero solo nel caso che voi decideste di pagare la tassa anche in futuro (ma come, se ho chiesto di non pagarla, perché dovrei cambiare idea?). Per finire il giovane impiegato ci ricorda che la documentazione ad integrazione va inviata entro 15 giorni, altrimenti decade tutta la pratica. Peccato che loro, il fisco, ci abbia impiegato tre mesi per reagire alla nostra “istanza”. Cioè sei volte il tempo che concede a noi. Forse io sono troppo pignolo, ma c’è qualcosa che non funziona nel modo di comunicare del Fisco con l’utente, se capita che una persona di intelligenza media abbia problemi a decodificare una missiva. Ma tutti i soldi spesi per l’e-government a cosa servono se non si riesce neanche a scrivere con chiarezza una lettera? Il dubbio forte è che siano stati in buona parte fondi gettati al vento, utili per lo più a finanziare acquisti di macchinari che ingombrano gli uffici senza incidere né sull’organizzazione, né sugli stili di comunicazione, i quali rimangono astrusi, burocratici e autoreferenziali. Così si spiegherebbe come mai, nel recente rapporto ONU sulla preparazione nei confronti dell’e-government l’Italia figuri al posto n. 27, e sia preceduta, solo per fare qualche esempio da Slovenia (n.26), Repubblica Ceca (n. 25) ed Estonia (al n. 13). E ovviamente da tutte le nazioni europee, Spagna inclusa, che nell’ultimo anno ha reso disponibili i siti web del governo, oltre che in spagnolo e inglese, anche in cinese, giapponese, russo, tedesco e portoghese. Provate per curiosità ad andare sul portale ufficiale del Governo italiano: solo in italiano, appunto. Va un po’ meglio nel sito del prossimo G8, che almeno prevede la lingua inglese. Ma solo quella. Forse ai “Grandi 8” si poteva fare la cortesia di scrivere nelle loro lingue madri, no?
Rigido e flessibile
di Patrizio Di Nicola
Un tempo, quando il mondo se ne stava al calduccio della società industriale, tutte le categorie di analisi erano chiare e lineari. Prendete i concetti di rigido e flessibile: il primo aveva una accezione tutto sommato negativa, ed indicava qualcosa di duro, impossibile da piegare. Avere un carattere rigido, essere duro nei comportamenti non rappresenta una buona qualità umana. Al contrario il concetto di flessibile ci rimanda una valenza positiva: una cosa o una persona flessibile si adatta a contesti e situazioni differenti, quindi è poliedrica e docile. La produzione, quando è flessibile, si sposa meglio con le condizioni del mercato del lavoro e delle vendite. Oggi, però, siamo un po’ disorientati, e l’equazione flessibile=buono, rigido = cattivo non funziona più bene come un tempo. Vediamo alcuni esempi di dissonanze cognitive che si sono create: iniziamo dal lavoro flessibile. Ottima idea, si potrebbe pensare, in quanto facilita la conciliazione dei tempi, un bene importante per tutti noi. Invece il lavoro flessibile è diventato una specie di disgrazia, e chi è flessibile rischia ogni giorno di trovarsi sul lastrico. Secondo esempio è la “morale comune”: se e’ flessibile ed adattabile pare sia meglio, si genera una società tollerante. Invece in nome della morale flessibile si fanno abusi di ogni tipo, dalla discriminazione razziale sino al parcheggio in tripla fila. Vi è chi, inneggiato dalle folle, cita la morale comune per giustificare chi evade le tasse, ovviamente quando sono troppo elevate. Terzo esempio di flessibilità immorale ce la fornisce la recente idea di auto-condonarsi gli abusi edilizi: se hai una casa e la allarghi, ma non troppo, fai bene e aiuti la ripresa economica. Forse più che flessibile l’idea è solo balzana, ma tant’è. Sul fronte opposto, di comportamenti rigidi che si contrabbandano per esempi positivi citiamo: 1) la legge sul testamento biologico, che fissa una regola rigida sul fine vita uguale per tutti, a prescindere dalle scelte individuali, ma che viene vista dal governo come una grande scelta di civiltà; 2) le norme – che non si vuole proprio modificare – sugli ordini professionali, gli albi e i cartelli vari; grazie a queste entità paghiamo di più il taxi, il notaio, la benzina, i servizi bancari e perfino la pasta. Sarà vero che la rigidità garantisce la professionalità di questi servizi? 3) le liste bloccate alle elezioni. Dice Qualcuno (si noti la maiuscola) che tale rigidità serve a proporre ai cittadini solo il miglior personale politico. Ma a me piacerebbe tanto votare chi mi pare. Possiamo essere tanto flessibili da farmi sbagliare da solo?
di Patrizio Di Nicola
Un tempo, quando il mondo se ne stava al calduccio della società industriale, tutte le categorie di analisi erano chiare e lineari. Prendete i concetti di rigido e flessibile: il primo aveva una accezione tutto sommato negativa, ed indicava qualcosa di duro, impossibile da piegare. Avere un carattere rigido, essere duro nei comportamenti non rappresenta una buona qualità umana. Al contrario il concetto di flessibile ci rimanda una valenza positiva: una cosa o una persona flessibile si adatta a contesti e situazioni differenti, quindi è poliedrica e docile. La produzione, quando è flessibile, si sposa meglio con le condizioni del mercato del lavoro e delle vendite. Oggi, però, siamo un po’ disorientati, e l’equazione flessibile=buono, rigido = cattivo non funziona più bene come un tempo. Vediamo alcuni esempi di dissonanze cognitive che si sono create: iniziamo dal lavoro flessibile. Ottima idea, si potrebbe pensare, in quanto facilita la conciliazione dei tempi, un bene importante per tutti noi. Invece il lavoro flessibile è diventato una specie di disgrazia, e chi è flessibile rischia ogni giorno di trovarsi sul lastrico. Secondo esempio è la “morale comune”: se e’ flessibile ed adattabile pare sia meglio, si genera una società tollerante. Invece in nome della morale flessibile si fanno abusi di ogni tipo, dalla discriminazione razziale sino al parcheggio in tripla fila. Vi è chi, inneggiato dalle folle, cita la morale comune per giustificare chi evade le tasse, ovviamente quando sono troppo elevate. Terzo esempio di flessibilità immorale ce la fornisce la recente idea di auto-condonarsi gli abusi edilizi: se hai una casa e la allarghi, ma non troppo, fai bene e aiuti la ripresa economica. Forse più che flessibile l’idea è solo balzana, ma tant’è. Sul fronte opposto, di comportamenti rigidi che si contrabbandano per esempi positivi citiamo: 1) la legge sul testamento biologico, che fissa una regola rigida sul fine vita uguale per tutti, a prescindere dalle scelte individuali, ma che viene vista dal governo come una grande scelta di civiltà; 2) le norme – che non si vuole proprio modificare – sugli ordini professionali, gli albi e i cartelli vari; grazie a queste entità paghiamo di più il taxi, il notaio, la benzina, i servizi bancari e perfino la pasta. Sarà vero che la rigidità garantisce la professionalità di questi servizi? 3) le liste bloccate alle elezioni. Dice Qualcuno (si noti la maiuscola) che tale rigidità serve a proporre ai cittadini solo il miglior personale politico. Ma a me piacerebbe tanto votare chi mi pare. Possiamo essere tanto flessibili da farmi sbagliare da solo?
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