Odio e dintorni
Di Patrizio Di Nicola
Il titolo del libro e’ costituito da un acronimo offensivo. ACAB= All Cops Are Bastard, tutti i poliziotti sono dei bastardi. L’acronimo compare per la prima volta negli anni ottanta nel titolo di una canzone del gruppo skinheads The 4-Skins. Una scritta che si trova, sempre più spesso, sui muri degli stadi, e tatuata sulla pelle degli ultrà.
L’autore è il giornalista di Repubblica Carlo Bonini, Autore di vari scoop molto informati (come quello sul caso Telekom Serbia) e di alcuni libri di successo, come quello sulle Toghe Rosse (nel 1998 con il giudice Misiani) e il più recente sulla prigione di Guantanamo (nel 2004).
Lo stile del libro è quello del romanzo, che segue le vite di un gruppo di celerini, coinvolti in alcune delle storie più spinose dell’Italia recente, dai fatti del G8 di Genova, sino ai disordini esplosi nelle tifoserie romane dopo la morte del tifoso laziale Gabriele Sandri, avvenuta nella stazione di servizio autostradale di Badia al Pino.
Il contenuto del libro, ci avvisa l’autore, è tutta attinente la realtà: una storia raccontata tramite la raccolta di atti processuali, documenti e testimonianze delle persone coinvolte.
L’odio è l’elemento portante della narrazione. Non un semplice odio di classe, ma un rapporto complesso tra persone che stanno su due barricate totalmente diverse di uno stesso stadio: da una parte gli ultrà, dall’altra i poliziotti. Che condividono, con gli ultrà, la stessa origine. Stessi quartieri, medesime ideologie politiche di estrema destra. Ma gli uni sono dalla parte dell’ordine, gli altri del disordine. Per definizione. Una linea di confine che a volte sembra offuscarsi, come scoprono i poliziotti indagati – con un certo stupore - dopo i pestaggi di Genova. Scoprire che non sempre è vero che “l’Italia non è uno stivale, ma un anfibio di celerino”, come afferma nel blog della polizia uno dei protagonisti, può essere uno shock.
Questo libro può essere letto in due modi: come un romanzo, e di certo vi avvincerà. Ma anche come un reportage, e questo vi renderà molto inquieti.
Riferimento:
Carlo Bonini, ACAB - All Cops Are Bastard, Giulio Einaudi Editore, 2009
giovedì, marzo 12, 2009
lunedì, marzo 02, 2009
Se il mondo reale censura quello digitale
In passato il mondo della politica stentava a capire le logiche a cui si ispira Internet. Con una allarmante periodicità, cercava di “intrufolarsi” in questo universo con leggi e decreti assolutamente inapplicabili, che finivano solo per creare oneri gravosissimi e inutili. Norme peraltro facilmente aggirabili, grazie proprio alla struttura aperta della rete. Un esempio: quando si decise di oscurare il sito Pirate Bay, accusato di fornire collegamenti a materiali coperti da copyright, fu adottata una tecnica detta “filtraggio”. Inutile dire che il sito indicò immediatamente un sistema, perfettamente lecito, per ignorare la limitazione. Ma qualcosa sta cambiando: sembra infatti che la politica oggi capisca meglio Internet, ed iniziano a comparire proposte di legge che vanno –casualmente? – in direzione di una limitazione dell’ampia libertà che ora vige sulla Rete. L’attacco è partito circa 18 mesi fa, quando il senatore del PD On. Levi presentò una proposta di legge sull’editoria, che avrebbe portato alla chiusura di migliaia di blog, forum e siti, equiparati a testate giornalistiche, con conseguente obbligo di nominare un direttore responsabile e attivare rigide procedure di registrazione. Le critiche furono molte, il Sen. Levi promise modifiche, ma poi ha ripresentato la legge quasi identica alla prima occasione. Il Times fu lapidario: si tratta di un “attacco geriatrico ai bloggers italiani”. La seconda mossa contro la rete viene dal senatore dell’UDC D’Alia, che il 5 febbraio 2009 inserisce nel decreto sulla sicurezza un emendamento (Art. 50-bis) inteso a chiudere i siti e i servizi internet che istigano a delinquere. Buona idea? No: la norma è tanto maliziosa da portare alla chiusura indiscriminata di portali come YouTube o Facebook . Il terzo attacco viene dalla deputata Carlucci, che nel recentissimo DDL 2195 vieta l’immissione in rete di qualsiasi contenuto in maniera anonima (apparentemente dimenticando che i provider, in caso di richiesta del giudice, possono fornire l’identità di qualsiasi proprio utente). Ci sembra un vero a proprio accerchiamento: la politica ha capito che, piegata l’editoria e la TV, bisogna ridurre gli spazi di liberta su Internet. Ma che ci riesca è tutt’altro che scontato: la grandezza di internet è che per ogni limitazione si genera per reazione un nuovo spazio libero, dal citizen journalism al personal broadcasting. E’ la Rete, Onorevoli.
In passato il mondo della politica stentava a capire le logiche a cui si ispira Internet. Con una allarmante periodicità, cercava di “intrufolarsi” in questo universo con leggi e decreti assolutamente inapplicabili, che finivano solo per creare oneri gravosissimi e inutili. Norme peraltro facilmente aggirabili, grazie proprio alla struttura aperta della rete. Un esempio: quando si decise di oscurare il sito Pirate Bay, accusato di fornire collegamenti a materiali coperti da copyright, fu adottata una tecnica detta “filtraggio”. Inutile dire che il sito indicò immediatamente un sistema, perfettamente lecito, per ignorare la limitazione. Ma qualcosa sta cambiando: sembra infatti che la politica oggi capisca meglio Internet, ed iniziano a comparire proposte di legge che vanno –casualmente? – in direzione di una limitazione dell’ampia libertà che ora vige sulla Rete. L’attacco è partito circa 18 mesi fa, quando il senatore del PD On. Levi presentò una proposta di legge sull’editoria, che avrebbe portato alla chiusura di migliaia di blog, forum e siti, equiparati a testate giornalistiche, con conseguente obbligo di nominare un direttore responsabile e attivare rigide procedure di registrazione. Le critiche furono molte, il Sen. Levi promise modifiche, ma poi ha ripresentato la legge quasi identica alla prima occasione. Il Times fu lapidario: si tratta di un “attacco geriatrico ai bloggers italiani”. La seconda mossa contro la rete viene dal senatore dell’UDC D’Alia, che il 5 febbraio 2009 inserisce nel decreto sulla sicurezza un emendamento (Art. 50-bis) inteso a chiudere i siti e i servizi internet che istigano a delinquere. Buona idea? No: la norma è tanto maliziosa da portare alla chiusura indiscriminata di portali come YouTube o Facebook . Il terzo attacco viene dalla deputata Carlucci, che nel recentissimo DDL 2195 vieta l’immissione in rete di qualsiasi contenuto in maniera anonima (apparentemente dimenticando che i provider, in caso di richiesta del giudice, possono fornire l’identità di qualsiasi proprio utente). Ci sembra un vero a proprio accerchiamento: la politica ha capito che, piegata l’editoria e la TV, bisogna ridurre gli spazi di liberta su Internet. Ma che ci riesca è tutt’altro che scontato: la grandezza di internet è che per ogni limitazione si genera per reazione un nuovo spazio libero, dal citizen journalism al personal broadcasting. E’ la Rete, Onorevoli.
Working Class Hollywood
Il cinema ha sempre parlato poco del lavoro, preferendo, come avvenuto ad esempio nel neorealismo italiano, concentrarsi su soggetti sociali come i poveri o i disoccupati, o, come nel cinema hollywoodiano, dando spazio ai professionisti e ai manager più o meno rampanti.
Il perché di tale esclusione, che risale agli albori del cimena, tenta di spiegarcelo il libro di cui parliamo oggi. Non è un testo nuovo (è stato pubblicato nel 1998), è di un autore americano, Steven Ross, che dirige il Dipartimento di Storia presso la University of South California, e non è mai stato tradotto in Italiano, per cui chi lo vuole leggere dovra’ acquistarlo, per circa 27 dollari, su Amazon o richiederlo tramite il prestito interbibliotecario e poi sforzarsi un po’ con l’inglese.
Nonostante tutte queste difficoltà, se siete appassionati di storia del lavoro e del cinema, è una lettura imperdibile. Il titolo del libro è evocativo: Working Class Hollywood, Hollywood e la classe lavoratrice.
Ross prende in esame la ricca produzione cinematografica americana nei primi tre decenni del ‘900, tra il 1907 e il 1930, scoprendo che in quell’epoca moltissimi film muti (oltre 200 film) prodotti ad Hollywood, all’epoca nascente centro della produzione cinematografica, avevano per oggetto le classi lavoratrici e i conflitti di lavoro. Registi famosi dell’epoca, come Charlie Chaplin, D. W. Griffith, e William de Mille giravano film che avevano per tema i lavoratori e la difesa dei diritti della classe operaia contro i loro nemici, i capitalisti.
Poi vennero alla ribalta gli stessi operai, che divennero registi e produttori di film di protesta, realizzando titoli come A Martyr to His Cause (del 1911, dedicato alla nascita del sindacato AFL) o The Gastonia Textile Strike (del 1929, un documentario realizzato dal cameraman Sam Brody in presa diretta durante lo sciopero delle fabbriche tessili di Gastonia, in South Carolina, che documenta tra l’altro la brutalità della polizia contro scioperanti e sindacato). Questi film raccontavano una classe operaia forte ed unita che tramite scioperi, sindacati e comportamenti radicali intendeva trasformava l’America. Questi film erano considerati tanto pericolosi che Edgar Hoover, dal 1924 direttore del FBI, aveva creato una sezione della polizia per spiarne i registi e gli attori.
I film operaisti e radicali scomparvero dalle scene verso la fine degli anni Venti. In quel periodo, che segnera’ il passaggio dal muto al parlato, nasce il sistema dei grandi Studios californiani, che grazie ai finanziamenti di Wall Street iniziano a realizzare colossal, assumono registi, tecnici e attori, comprano sale di proiezione e teatri e possono così attuare un controllo capillare della produzione cinematografica. In questo nuovo sistema, ovviamente, non c’e’ posto per la classe operaia e per le fabbriche e i film veicolano l’immagine di un’America benestante e consumista, senza conflitti sociali e senza classi. Sarà un falso storico, ma molto ben riuscito.
Working-Class Hollywood: Silent Film and the Shaping of Class in America
Steven J. Ross,
Princeton University Press, 1998
Il cinema ha sempre parlato poco del lavoro, preferendo, come avvenuto ad esempio nel neorealismo italiano, concentrarsi su soggetti sociali come i poveri o i disoccupati, o, come nel cinema hollywoodiano, dando spazio ai professionisti e ai manager più o meno rampanti.
Il perché di tale esclusione, che risale agli albori del cimena, tenta di spiegarcelo il libro di cui parliamo oggi. Non è un testo nuovo (è stato pubblicato nel 1998), è di un autore americano, Steven Ross, che dirige il Dipartimento di Storia presso la University of South California, e non è mai stato tradotto in Italiano, per cui chi lo vuole leggere dovra’ acquistarlo, per circa 27 dollari, su Amazon o richiederlo tramite il prestito interbibliotecario e poi sforzarsi un po’ con l’inglese.
Nonostante tutte queste difficoltà, se siete appassionati di storia del lavoro e del cinema, è una lettura imperdibile. Il titolo del libro è evocativo: Working Class Hollywood, Hollywood e la classe lavoratrice.
Ross prende in esame la ricca produzione cinematografica americana nei primi tre decenni del ‘900, tra il 1907 e il 1930, scoprendo che in quell’epoca moltissimi film muti (oltre 200 film) prodotti ad Hollywood, all’epoca nascente centro della produzione cinematografica, avevano per oggetto le classi lavoratrici e i conflitti di lavoro. Registi famosi dell’epoca, come Charlie Chaplin, D. W. Griffith, e William de Mille giravano film che avevano per tema i lavoratori e la difesa dei diritti della classe operaia contro i loro nemici, i capitalisti.
Poi vennero alla ribalta gli stessi operai, che divennero registi e produttori di film di protesta, realizzando titoli come A Martyr to His Cause (del 1911, dedicato alla nascita del sindacato AFL) o The Gastonia Textile Strike (del 1929, un documentario realizzato dal cameraman Sam Brody in presa diretta durante lo sciopero delle fabbriche tessili di Gastonia, in South Carolina, che documenta tra l’altro la brutalità della polizia contro scioperanti e sindacato). Questi film raccontavano una classe operaia forte ed unita che tramite scioperi, sindacati e comportamenti radicali intendeva trasformava l’America. Questi film erano considerati tanto pericolosi che Edgar Hoover, dal 1924 direttore del FBI, aveva creato una sezione della polizia per spiarne i registi e gli attori.
I film operaisti e radicali scomparvero dalle scene verso la fine degli anni Venti. In quel periodo, che segnera’ il passaggio dal muto al parlato, nasce il sistema dei grandi Studios californiani, che grazie ai finanziamenti di Wall Street iniziano a realizzare colossal, assumono registi, tecnici e attori, comprano sale di proiezione e teatri e possono così attuare un controllo capillare della produzione cinematografica. In questo nuovo sistema, ovviamente, non c’e’ posto per la classe operaia e per le fabbriche e i film veicolano l’immagine di un’America benestante e consumista, senza conflitti sociali e senza classi. Sarà un falso storico, ma molto ben riuscito.
Working-Class Hollywood: Silent Film and the Shaping of Class in America
Steven J. Ross,
Princeton University Press, 1998
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